Il Blog dell'Ordine degli Avvocati di Messina

Costituzionalisti siciliani riuniti a Messina per discutere di un nuovo Statuto della Regione Siciliana

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Si concludono oggi all’Università di Messina le due giornate di studio dedicate al nuovo Statuto della Regione Siciliana. A lavoro i costituzionalisti di tutte le Università della Regione – riuniti nel corso di un evento patrocinato dall’Assemblea Regionale Siciliana, della Università degli Studi e dell’Ordine degli avvocati di Messina – con l’obiettivo di offrire un contributo alla elaborazione di una nuova Carta statutaria la cui venuta alla luce, ad oltre settant’anni dal varo di quella ancora in vigore, non è ritenuta più rinviabile.
“Questo incontro – ha evidenziato il presidente dell’Ordine degli avvocati di Messina, Vincenzo Ciraolo in apertura dei lavori – è tra i più interessanti e stimolanti degli ultimi anni, anche in considerazione del fatto che trovo ambizioso ed affascinante il progetto di rivedere lo Statuto della Regione siciliana.
Per noi è motivo di grande orgoglio essere parte integrante del progetto e poter contribuire alla sua riuscita, anche grazie alla preziosissima disponibilità dei colleghi Agatino Bellomo e Antonio Lanfranchi che avranno il compito di curare l’armonizzazione e il coordinamento dei contributi scientifici.

Riteniamo, infatti, che l’Avvocatura non possa limitarsi alla funzione seppur essenziale, di protagonista del processo ma abbia il dovere di partecipare alla vita pubblica. Come Ordine professionale abbiamo la presunzione di pensare che la nostra realtà, così come quella universitaria, rappresenta un contenitore di intelligenze, di competenze e di sensibilità da mettere a disposizione della nostra comunità, a maggior ragione quando questo ci viene chiesto dal nostro Ateneo e dalla nostra nobile facoltà di Giurisprudenza, nella quale tutti noi ci siamo formati grazie agli insegnamenti dei maestri che l’hanno resa illustre in Italia e non solo”.

Fulcro e motore dell’iniziativa uno dei più accreditati costituzionalisti italiani, il professore Antonio Ruggeri – che ha organizzato le due giornate insieme con i colleghi Giacomo D’Arrigo, Luigi D’Andrea, Giovanni Moschella e Antonio Saitta. 
 
Intervento prof. Ruggeri
 
L’obiettivo è quello di mettere in mano agli operatori istituzionali, specie a quelli regionali, una bozza di articolato cui essi possano fare riferimento in sede di elaborazione del disegno di nuovo statuto.
La Carta del ’46 ha costituito un importante punto di riferimento, prospettandosi in essa un modello di articolazione istituzionale dello Stato particolarmente avanzato, anzi fin troppo avanzato per il tempo, tant’è che esso non è riuscito a farsi strada e ad affermarsi conformemente al disegno tracciato sulla carta. Oggi, però, per un verso, alcuni istituti statutari non sono più riproponibili (ad es.l’Alta Corte), mentre altri (come il ruolo assegnato al Presidente della Regione per ciò che attiene al mantenimento dell’ordine pubblico), rimasti lettera morta, non sono in alcun modo prospettabili. Allo stesso tempo, la società siciliana (e l’intera società italiana) è profondamente cambiata, così come è cambiato il contesto internazionale e sovranazionale, segnato da vincoli viepiù intensi di mutua solidarietà tra gli Stati e, specialmente, dalla costruzione europea tuttora in corso, pur tra gravi difficoltà e non rimosse contraddizioni e complessive carenze.
D’altro canto, chi si accinga a porre mano alla redazione di una nuova Carta statutaria non può non trarre profitto dalla lezione della storia, e segnatamente dall’esperienza regionale qual è venuta maturando fino ad oggi nel corso di un processo ormai pluridecennale, esso pure svoltosi con non poco affanno e vero e proprio travaglio, di cui è indice eloquente una corposa giurisprudenza costituzionale.
Alle più salienti linee di tendenza di questa giurisprudenza occorre prestare la massima attenzione; e, se è vero che non avrebbe pratico senso contrapporsi frontalmente a taluni granitici convincimenti del giudice costituzionale, è parimenti vero che alcune sue espressioni fortemente penalizzanti per l’autonomia vanno contrastate con decisione: quale migliore occasione, allora, di quella della riscrittura dello statuto? Non si dimentichi che siamo davanti ad una fonte costituzionale, vale a dire allo strumento provvisto della maggior forza normativa, il più idoneo a indurre la Consulta a correzioni, sia pur parziali, dei propri orientamenti.
 
Quanto all’organizzazionesi tratta di ragionare se convenga tenere fermo così com’è il principio del simul simul che, nel presupposto della elezione a suffragio universale e diretto del Presidente della Regione, informa di sé le relazioni tra gli organi costituzionali della Regione stessa. La questione merita, a mia opinione, di essere riconsiderata alla luce degli sviluppi del sistema dei partiti. E, invero, nel momento in cui il quadro stesso appare sfilacciato e segnato da gravi tensioni e contraddizioni, il rischio è che, non essendo i partiti in grado di giocare un ruolo forte di aggregazione e di progettazione politica, il meccanismo in parola possa dar fiato, in una misura eccessiva e con esiti inaccettabili, alla tendenza in atto al “leaderismo” e, anzi, al vero e proprio “cesarismo” politico, finendo col risolversi in una sovraesposizione del Presidente suscettibile di recare squilibri nella forma di governo e nella stessa “forma di Regione” (intesa come riferita ai rapporti tra comunità governata e apparato governante), dei veri e propri guasti forse non riparabili.
D’altro canto, ‘l’equilibrio del terrore’, come l’ha definito un’autorevole dottrina, insito nel meccanismo stesso, può agevolare operazioni di trasformismo politico, portando a crisi di governo a getto continuo mascherate da rimpasti più o meno consistenti, che nondimeno passano sopra la testa dell’Assemblea, inibita dal timore dell’autoscioglimento nel prendere l’iniziativa della sfiducia al Presidente, la cui previsione si è fin qui rivelata un’arma spuntata, incapace di fare da pungolo per l’azione di governo del Presidente.
Credo che il recupero a beneficio dell’Assemblea del ruolo di centrale rilievo sulla scena che ad essa spetta passi anche attraverso il ripensamento del meccanismo suddetto.
Occorre, poi, rendere ancora più efficaci ed incisivi i poteri di controllo dell’Assemblea sull’esecutivo e dar vita a soluzioni organizzative inusuali al piano dei raccordi con gli enti locali, lo Stato, l’Unione.
Quanto alle funzioni, credo che quella della enumerazione delle materie di competenza delle Regioni mediante etichette, usualmente adottata da noi come altrove, è fortemente penalizzante per l’autonomia, della quale tuttavia non possiamo – a quanto pare – fare comunque a meno.
La verità è che la Regione si presenta nuda, disarmata, davanti al giudice costituzionale, sovraccaricato dalla vaghezza del linguaggio costituzionale di poteri enormi di apprezzamento discrezionale. E, poiché la tendenza è nel senso di una ricentralizzazione di materie e funzioni (la riforma “Renzi -Boschi” docet…), cui non sono estranee le pressioni provenienti dall’Unione europea, ecco che immaginare di poter rafforzare le difese dell’autonomia facendo leva su nuove etichette può rivelarsi una via non conducente allo scopo. Non dico che nulla di buono possa aversi su questo terreno. Credo però che altre siano le risorse cui attingere, attraverso una incisiva ed innovativa razionalizzazione statutaria, segnatamente puntando con decisione sugli istituti di un regionalismo cooperativo autenticamente ispirato al principio della partnership.
Non v’è, infatti, da fare molto affidamento sulla stanca riproposizione della “logica” vetero-garantista della separazione delle competenze, contraddetta da una giurisprudenza consolidata, seppur a tutt’oggi gravata da talune oscillazioni. Di contro, occorre decisamente puntare sulla “logica” della integrazione delle competenze, innalzata ad autentico metodo dell’azione dei pubblici poteri, a tutti i livelli istituzionali: una “logica” che, poi, naturalmente porta alla sostituzione dell’uno all’altro ente che resti inoperoso o che intervenga solo in parte per l’appagamento del pubblico interesse.
Integrazione, in primo luogo, di tipo “orizzontale”, vale a dire tra gli organi direttivi della Regione, ristrutturando i procedimenti (a partire, ovviamente, da quelli di normazione) ed assicurando una presenza di centrale rilievo all’esecutivo nella formazione delle leggi, oltre che dotandolo di poteri di normazione diretta, a mezzo di decreti-legge e di decreti legislativi. Allo stesso tempo, la varietà e complessità dei bisogni da soddisfare sollecita l’“invenzione” di nuovi tipi di legge, caratterizzate da procedure aggravate (e, appunto, “integrate”), aperte all’apporto degli enti locali e di soggetti esponenziali della società civile (penso, soprattutto, alla legge di delegazione europea, a leggi di attuazione di accordi con Stati esteri o intese con loro articolazioni interne, a leggi “organiche”, in relazione a determinate materie, quali le leggi che disciplinano gli istituti di democrazia diretta, ecc.). Allo stesso tempo, è consigliabile la invenzione di nuove specie di regolamento, di referendum, di strumenti in genere (anche di soft law) di governo della società.
Integrazione, quindi, di tipo “verticale”, prefigurandosi procedimenti “misti”, in seno ai quali prenda corpo la “leale cooperazione” con altri enti autonomi, lo Stato, l’Unione appunto.
Il versante delle relazioni internazionali e sovranazionali merita poi di essere battuto con particolare cura ed insistenza, specie dalla nostra Regione che, per la sua posizione strategica nel Mediterraneo, davvero si pone quale la porta dell’Europa, come tra l’altro dimostra la questione cruciale relativa alle immigrazioni di massa.
La Regione può (e deve) al riguardo fare tutta quanta la propria parte; di certo, non sostituendosi ad altri enti, quali lo Stato e l’Unione, ma senza nondimeno sottrarsi alle proprie responsabilità, morali prima ancora che giuridiche.
Nella presente società multiculturale, sollecitata a convertirsi sempre di più – è stato detto da una sensibile dottrina – in “interculturale”, le autonomie territoriali in genere e quelle regionali in ispecie possono fare molto per la trasformazione della struttura della società stessa all’insegna dei valori fondamentali di libertà ed eguaglianza (specie nella sua declinazione sostanziale) e, in ultima istanza, dignità della persona umana.
Il nuovo statuto, colmando una strutturale carenza di quello del ’46, peraltro temporis ratione giustificata, è chiamato a dotarsi di enunciati normativi nei quali largo spazio dovrà darsi ai rapporti tra la Regione e quanti, cittadini e non, si trovino nel suo territorio, stabilmente residenti oppure di passaggio: tutti a vario titolo bisognosi di cure, titolari di diritti ma anche gravati da doveri, tanto inter se che verso l’ente ospitante. Occorre, insomma, produrre uno sforzo di fantasia progettuale tale da portare ad una revisione profonda dell’idea di “forma di Regione”, in essa trovando posto anche coloro che non hanno voce – perlomeno ad oggi – al piano dei diritti politici, offrendovi opportunità di inserimento nei processi di produzione giuridica e nelle attività d’indirizzo politico da cui sono ad oggi tenuti estranei.
Per questo verso, lo statuto può dare un concorso di primo piano alla trasformazione della nozione stessa di cittadinanza ed al riposizionamento su basi nuove del rapporto tra cittadini e non cittadini, facendo proprio del riferimento al territorio la base più solida su cui esso può essere complessivamente ripensato e ridisciplinato.
In questo quadro la Regione può proporsi quale sede privilegiata di collegamento interistituzionale: tra gli enti locali (e, segnatamente, i Comuni) e lo Stato e, quindi, l’Unione, come pure tra soggetti esponenziali della società organizzata, facendosi della sussidiarietà, tanto nella sua proiezione orizzontale quanto in quella verticale, un autentico metodo di azione e di governo della società.
Si tratta, poi, di ridefinire su basi nuove tanto l’amministrazione quanto la finanza. La seconda – com’è chiaro – dipende dalla prima, oltre che dagli oneri derivanti dalla legislazione e dalla normazione in genere. La finanza è, infatti, chiamata a sostenere ed assecondare, a un tempo, le funzioni; ha, cioè, da porsi quale una sorta di vestito su misura in relazione ai compiti ai quali la Regione deve far fronte. Pur nel presente contesto segnato da una crisi economica soffocante, dotare la Regione di campi materiali sulla carta assai vasti sui quali poter spiegare la propria autonomia senza però la necessaria provvista finanziaria equivale a vanificare l’autonomia stessa sul nascere ovvero a fare opera mistificatoria e demagogica.
Qualora dovesse un domani affermarsi a carattere generale un modello flessibile di neoregionalismo, idoneo a spianare la via per l’avvento di un sistema di specialità diffusa, a favore del quale mi sono da tempo dichiarato, ogni Regione (e, dunque, anche la nostra) potrebbe attingere da un ‘paniere’ particolarmente capiente le materie (rectius, gli interessi) adeguati ai bisogni emergenti dal proprio territorio e farne quindi oggetto tanto di regolazione normativa quanto di amministrazione, o – per dir meglio – di un’attività di indirizzo e di coordinamento degli enti (territoriali e non) operanti al proprio interno, cooperando con tutti al fine dell’appagamento di interessi il più delle volte dalla connotazione “mista”, bisognosi pertanto di non essere affidati alla cura esclusiva di un solo ente.
Il principio di responsabilità dovrà, quindi, porsi a base dell’assetto delle pubbliche funzioni; ed è chiaro, allora, che la Regione potrà (e dovrà) contare sulle risorse finanziarie rapportate alle funzioni che in concreto è chiamata ad esercitare, non già a quelle sulla carta riconosciute da formule statutarie peraltro strutturalmente connotate da vaghezza espressiva.
Quanto, poi, all’amministrazione, si tratta di fare una scelta di campo tra un modello ideale-astratto ed uno invece legato al contesto in atto. 
Ancora una volta, l’esperienza è maestra. Sappiamo tutti la misera fine fatta dal disegno particolarmente innovativo contenuto nell’art. 118, quale riscritto nel 2001: la inopinata rimozione del principio del parallelismo è stata duramente sanzionata dalla giurisprudenza (specie con la famosa sent. n. 303 del 2003, a firma del compianto C. Mezzanotte) che ha, a conti fatti, portato al ripescaggio del principio stesso. Ed è singolare che la riforma “Renzi-Boschi”, a conti fatti, riproponesse stancamente l’impianto ad oggi vigente, dimentica del giudizio fortemente negativo sullo stesso espresso dalla Consulta. Si tratta, dunque, di chiedersi se riproporlo ancora una volta nel nuovo statuto o se abbandonarlo senza molti rimpianti. Ho l’impressione che, qualora dovesse battersi la prima via, la giurisprudenza, con la sua consumata abilità argomentativa e manipolativa dei testi (persino dello stesso parametro costituzionale…), se ne discosterebbe, quanto meno in cospicua misura.
D’altro canto, lo stato a dir poco disastroso, agonizzante, in cui versano gli enti locali è quello che è: immaginare che i Comuni possano davvero porsi quale il ‘centro di gravità permanente’ dell’amministrazione sarebbe a dir poco ingenuo. Si tratta, nondimeno, di evitare l’eccesso opposto di un accentramento di funzioni in capo alla Regione, inadeguato rispetto al ruolo di questa quale ente essenzialmente d’indirizzo e di coordinamento. S’impone, dunque, la ricerca di un punto mediano d’incontro tra istanze contrastanti, che spingano, l’una, ad un decentramento e l’altra ad un accentramento di funzioni comunque eccessivi, tali da risolversi in un grave pregiudizio per la cura del pubblico interesse.
Solo pochi cenni ad un paio di questioni che l’esperienza ha dimostrato essere di centrale rilievo: l’una, con riguardo all’implementazione delle previsioni statutarie e, perciò, alle forme e ai modi con cui assicurarne l’attuazione; l’altra, con riferimento alle garanzie statutarie, e segnatamente alle procedure di revisione dello statuto ed ai ricorsi davanti alla Corte costituzionale. 
Per il primo aspetto, uno dei limiti strutturali dei documenti costituzionali (e, tra questi, appunto, lo statuto) è dato proprio dal fatto che i progetti di trasformazione della società e delle istituzioni in essi mirabilmente dipinti restano poi largamente disattesi anche per il difetto di procedure adeguate alla loro realizzazione. 
Ora, non saprei dire se quello delle norme di attuazione sia un ferro arrugginito, o no. Quanto meno, però, si rende necessario qualche aggiustamento, secondo quanto è peraltro da tempo segnalato dalla più avvertita dottrina, che ha affacciato proposte volte a rendere obbligatoria la messa in atto delle norme stesse entro tempi prestabiliti, una volta conclusa l’attività delle commissioni paritetiche. 
Di estrema delicatezza, poi, la seconda questione. Non è agevole fissare il punto di equilibrio nei rapporti tra Regione e Stato al piano delle procedure concernenti le modifiche statutarie, bilanciando e – fin dove possibile – conciliando interessi comunque meritevoli di tutela.
Per un verso, infatti, le ragioni della specialità spingono per la valorizzazione – la massima possibile – del ruolo della Regione; per un altro verso, però, occorre salvaguardare istanze unitarie comunque indisponibili. Forse, il punto d’incontro potrebbe rinvenirsi nella riserva alla sola Regione dell’iniziativa volta alla revisione dello statuto, preservando comunque il diritto di emendamento delle assemblee nazionali. Di contro, per il caso che si convenga sulla opportunità di non chiudere il diritto in parola alla sola Regione, si potrebbe prevedere che il disegno di modifica, sottoposto all’assemblea e da questa approvato (anche con modifiche) a maggioranza qualificata, non possa essere emendato dalle Camere, ristrette nell’alternativa tra il “prendere” e il “lasciare”. Allo stesso tempo, le istanze di unità potrebbero essere preservate attraverso la sottoposizione a referendum ex art. 138, prevedendosi che lo stesso possa aver luogo quale che sia la maggioranza raggiunta nella sede parlamentare. O ancora potrebbe immaginarsi una revisione pattiziamente concordata tra le assemblee elettive di Stato e Regione, non seguita da referendum, e via dicendo. Molte sono, ovviamente, le soluzioni attorno alle quali è possibile ragionare, nell’intento di un paritario appagamento delle istanze di autonomia e di quelle di unità.
Quanto ai ricorsi di costituzionalità, occorre finalmente e decisamente puntare al raggiungimento di quella “parità delle armi” – come l’ha chiamata una sensibile dottrina – fin qui venuta meno nell’esperienza, anche a motivo di enunciati costituzionali afflitti da eccessiva timidezza espressiva. Non spetta a me dire se convenga un livellamento “al basso”, che dia modo allo Stato di impugnare le leggi regionali unicamente per vizio d’incompetenza, ovvero “all’alto”, riconoscendo alla Regione la facoltà di ricorso anche oltre i casi di lesione della competenza stessa. È poi chiaro che, in linea con quel modello della integrazione delle competenze e della cooperazione tra gli enti, di cui si diceva, dovrà porsi mano alla previsione di raccordi con gli enti locali, riconoscendosi espressamente il titolo della Regione a farne valere le ragioni presso la Consulta, in linea peraltro – come si sa – con un orientamento di quest’ultima già da tempo invalso.
Molto altro si potrebbe (e dovrebbe) dire ma questo è, appunto, il compito demandato ai relatori, non a chi si è assunto l’onere, assai lieve, della mera presentazione delle Giornate che stanno per avere inizio. Mi limito solo a rinnovare l’auspicio che il nuovo statuto possa ospitare formule di organizzazione connotate da flessibilità di struttura e agilità di movenze, che ribadiscano la centralità di posto spettante alla Regione nella trama dei pubblici poteri e, perciò, il ruolo che la stessa è chiamata ad esercitare in una società e in un contesto istituzionale profondamente diversi da quelli in cui l’esperienza regionale ha avuto inizio, in una temperie storica particolarmente travagliata per il nostro Paese. Anche quella di oggi, però, è una congiuntura non poco sofferta, gravata da molte ipoteche di ordine politico, economico, sociale. Riuscire a dotare, anche e in primo luogo grazie al nuovo statuto, la Regione di strumenti adeguati a farvi fronte è una sfida alla quale tutti, operatori e studiosi, e sia pure nella diversità dei ruoli e delle responsabilità, non possiamo sottrarci”. 

loredana bruno
Loredana Bruno

 

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