Il diritto è una scienza del linguaggio: le parole, scritte o proferite, hanno una valenza creativa, e questo è tanto più vero in sistemi come il nostro, in cui la legge (in senso lato) è fatta di enunciati, e il mestiere del giurista – ma, in realtà, di ogni cittadino – è quello di comprenderne ed esplicitarne il significato.
C’è, però un luogo – ed è il Tribunale – in cui le parole del diritto assumono una valenza simbolica, oltreché precettiva. Di tutti gli edifici pubblici – a ben vedere – solo i palazzi di giustizia ostentano, all’interno delle proprie aule, una ricorrente fraseologia appositamente disciplinata, e talvolta oggetto di accese polemiche, sulla pelle della nostra Costituzione.
In principio fu: «La legge è uguale per tutti». Dicitura così familiare da essere divenuta, oggi, quasi caricaturale: lì dove regnano diffidenza e antipolitica, la perentoria proposizione suona irrealistica e beffarda.
Il giudice ligio al dovere – davanti a tanta, percettibile sfiducia nell’universalità della più nota fonte del diritto – si spenderebbe, allora, nella missione di riguadagnare alla legge almeno una parte della stima ormai perduta presso il pubblico: io – poiché non amo deludere le aspettative – farò, invece, l’opposto.
Dichiarare l’uguaglianza della legge – in verità – fu grande cosa, alcuni lustri orsono: per tramite dei lemmi di cui sopra, infatti, ebbe luogo un provvidenziale ribaltamento di prospettiva, che i civilisti chiamerebbero di “passaggio dallo status al contratto”.
Archiviati i particolarismi dell’ordinamento feudale e dello Stato assoluto, fondati sulla differenziazione tra i privilegi riservati ad alcuni e le vessazioni subite dai più, si sanciva un generale riequilibrio: la legge diveniva unica, e tutti avrebbero dovuto sottostarvi in pari misura.
Ma la storia, all’evidenza, non è immobile, e anche di quella conquista di civiltà si comprese, a lungo andare, l’ingenuità e l’insufficienza.
È vero, nessuno può accampare pretese dinastiche sui diritti fondamentali, sulle libertà, sull’autonomia contrattuale, poiché ogni persona ha eguale titolo per concorrervi.
Ma un conto è vantare un diritto sulla carta: altro è vivificare quel proclama, passando dalla sua affermazione al suo esercizio.
Ecco, dunque, l’ulteriore e decisivo passaggio, quello “dal contratto allo status”: non un’involuzione, ma la presa d’atto delle peculiarità di ciascuno di noi.
Considerare disponibile a tutti l’identica quantità di risorse iniziali è una finzione intollerabile per lo Stato sociale, che fa della diversità un’occasione di emancipazione, anziché d’ingessatura della propria condizione di vita.
Ma «che c’azzecca» – per citare un ben più illustre collega – «la storia costituzionale con gli arredi in Tribunale?»: più di quanto si pensi.
La legge – per vero – non è uguale per tutti: e guai se lo fosse. Esistono tante norme speciali, di favore, promozionali, in aiuto di coloro che, meno fortunati per nascita, vogliano migliorare la propria esistenza: a tutto questo diritto – diversificato, certo, ma in nome e in funzione dell’eguaglianza delle opportunità – dà copertura l’art. 3, II comma, della nostra Costituzione.
Alla notissima formula, allora, andrebbe forse sostituita un’altra, più calzante e coincidente con la lettera della Carta repubblicana: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge».
La differenza, non di poco conto, avrebbe il grande pregio di ricomporre il divario tra forma e sostanza: per legge, nessuno è migliore o peggiore dell’altro; donde, al suo cospetto, tutti siamo uguali.
Non vale, però, la reciproca: la legge, innanzi alla platea dei cittadini destinatari delle sue regole, non è sempre uguale a se stessa, perché deve adattarsi alle differenti circostanze in cui ognuno si trova inserito, nel proprio contesto di vita: pensiamoci, magari, la prossima volta in cui capiterà di entrare in un’aula giudiziaria.
Ma i problemi non finiscono qui: con propria circolare del 29 novembre 2002, il Capo del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria presso il Ministero della giustizia, facendo seguito ad un’espressa direttiva del Guardasigilli del tempo, introduceva in Tribunale un’altra dicitura, che molto avrebbe fatto discutere: «La giustizia è amministrata in nome del popolo».
Di per sé, nulla di più vero: è l’art. 101, I comma, della nostra Costituzione a precisarlo, e ben venga che l’ambiente di lavoro del giudice sia costellato di rimandi alla fonte del diritto da cui egli deriva la sua stessa giurisdizione.
Il punto, però, è proprio questo. Tutti gli enunciati normativi sono muti, inizialmente: è l’attribuzione ad essi di un significato – attività che chiamiamo interpretazione – a renderli eloquenti.
Politica e giustizia hanno diverse fonti di legittimazione: la prima il consenso elettorale, la seconda l’accertamento (tendenziale) della verità. L’una si fonda sul criterio maggioritario, l’altra è geneticamente antimaggioritaria, perché i diritti individuali, se sanciti dalla legge, vanno tutelati anche a costo di fare scelte impopolari: può sembrare paradossale, ma è soltanto contemplando la possibilità di decisioni (giudiziarie) contromaggioritarie che si può scongiurare il rischio di un’evoluzione antidemocratica dell’ordinamento complessivo.
Per questa ragione la nostra Costituzione non si azzarda ad affermare che la giustizia è amministrata dal popolo direttamente, ma soltanto – e scusate se è poco – in nome di esso (come, peraltro, l’intestazione di ogni provvedimento giudiziale testimonia): in una Repubblica, ogni potere deriva senz’altro dal popolo, ma non per ciò è esercitato immediatamente da quest’ultimo, bensì attraverso organi e procedure.
Si coglie, quindi, la ragione per cui ritengo grave la mancanza – pressoché sistematica, negli edifici delle nostre sedi giudiziarie – della scritta che dovrebbe invece campeggiare ben più generosamente: guarda caso, proprio il completamento di quell’art. 101 – tanto caro ad un Ministro della giustizia di qualche anno fa – ossia il suo secondo comma. Che, non per nulla, precisa come «i giudici sono soggetti soltanto alla legge».
Non è tanto l’uguaglianza del diritto oggettivo a dover rassicurare l’imputato o il ricorrente, né la consapevolezza che il giudice, amministrando la giustizia, tenga sempre a mente chi possiede la sovranità: a tranquillizzarlo dovrebbe innanzitutto essere la certezza che nessuna consorteria, nessun gruppo di pressione, nessuna facoltosa controparte potranno condizionare il giudice, provocando un piegamento della sua decisione in danno dell’innocente o in favore di chi ha torto.
Certo, le occasionali distorsioni possono pure registrarsi: ma le eccezioni non sono la regola. E sebbene per garantire l’indipendenza del giudice nessuno pensa possano bastare delle parole affisse alle spalle della sua poltrona, di sicuro esse faciliterebbero – anche inconsapevolmente – il compito di rappresentare a tutti il vero senso della giustizia, in un ordinamento costituzionale.
Ilario Nasso