Il Blog dell'Ordine degli Avvocati di Messina

Verso l’introduzione del reato di Tortura. Luci e ombre di un provvedimento da troppo tempo atteso (col rischio di un’ennesima occasione mancata)

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Il 17 marzo il Senato della repubblica ha approvato, in seconda lettura, la proposta di legge in tema di “Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano”, il cui iter parlamentare, avviato all’inizio della XVII legislatura, ha vissuto alterne fortune e periodici rallentamenti. Il testo è stato quindi trasmesso alle Camera in attesa della definitiva (?) approvazione.
Della previsione di uno specifico reato di Tortura si discute da almeno 30 anni. Da quando l’Italia ha firmato e ratificato la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti (CAT), adottata in seno alle Nazioni Unite nel 1984, il cui art. 4 pone a carico degli Stati contraenti uno specifico obbligo di penalizzazione di condotte descritte nel suo art. 1. Norma, questa, che detta una definizione di ciò che, secondo il diritto internazionale, si deve considerare come “tortura”: «qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito».
A rendere il tema ancora più attuale sono state alcune note vicende (Cucci, Aldrovandi, D’Uva), oltre agli interventi della giurisprudenza sovranazionale. Si pensi alla sentenza resa dalla Corte EDU nel caso Cestaro vs. Italia, che ha ritenuto il nostro Paese responsabile della violazione dell’art. 3 CEDU – a norma del quale «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti» – per non aver adeguatamente sanzionato i responsabili delle violenze perpetrate all’interno del scuola Diaz-Pertini, durante il G8 di Genova del 2001.
A fronte di tali premesse, ci troviamo di fronte a una colpevole inerzia da parte del legislatore italiano.
Un’inerzia ancora più censurabile se consideriamo come il fenomeno nella tortura sia oggetto dell’unico obbligo di criminalizzazione espressamente previsto dalla Costituzione italiana. L’art. 13, co. 4, infatti, stabilisce che «è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni della libertà personale». È evidente l’intento di sottolinearea il particolare disvalore della tortura (fenomeno, peraltro, del quale molti padri costituenti avevano fatto esperienza diretta)
È un precettocostituzionale a tutt’oggi largamente inattuata. A parte una serie di reati “comuni” (Percosse, Lesioni, Maltrattamenti, Abuso d’ufficio), l’unica norma che sembra tradurre nella legislazione ordinaria il precetto costituzionale è quella dell’art. 608 c.p., che incrimina e punisce l’«Abuso di autorità contro arrestati o detenuti». Si tratta, però, di uno strumento repressivo – per quanto significativo sul piano simbolico (essendo previsto già nel codice del 1930, quindi anteriormente all’entrata in vigore della Costituzione) – per molti versi inadeguato: non solo per i limiti edittali di pena piuttosto modesti («reclusione fino a 30 mesi»), ma anche per la scelta di limitarne l’ambito di applicazione ai soli «pubblici ufficiali» (e non anche agli incaricati di pubblico servizio), ai fatti commessi in danno di soggetti “legittimamente” privati della libertà personale, ai soli casi di «applicazione di misure di rigore non consentite dalla legge». Espressione che è stata a lungo interpretata nel senso che rilevasse solo la violazione di regole di condotta relative a misure di rigore comunque previste dai regolamenti penitenziari. Solo in tempi più recenti si è fatta strada una diversa interpretazione volta a ricondurre all’abito di applicazione dell’art. 608 c.p. le forme di “tortura inquisitoria” che si traducano in altrettante lesioni del fondamentale principio dell’inviolabilità della persona sottoposta a restrizioni di libertà.
Da questo punto di vista, con l’introduzione del reato di Tortura, il nostro ordinamento intraprenderà una “strada senza ritorno”, con effetti “irreversibili” per l’innalzamento del livello di tutela dei beni giuridici offesi dalla tortura. Se, infatti, la mancata piena attuazione dell’art.13 Cost. è rimasta priva di sanzione – stante l’impossibilità di porre rimedio ad un’incostituzionalità per omissione – nel momento in cui il precetto costituzionale dovesse trovare un completo adempimento, la Corte Costituzionale avrebbe il potere di sindacare la legittimità costituzionale di una eventuale legge abrogatrice (totale o parziale), facendo “rivivere” la norma illegittimamente abrogata. Senza considerare che, in quanto legge costituzionalmente necessaria (anche in ragione della natura internazionalmente obbligatoria del nuovo crimine), la legge introduttiva del reato di Tortura sarà sottratta a referendum abrogativo ex art. 75, co. II, Cost.

Si è molto discusso circa le ragioni delle resistenze incontrate finora dal tentativo di adeguare il nostro ordinamento agli standard di tutela imposti dalla Costituzione e dei ricordati strumenti normativi sovranazionali.  Sono ragioni che vanno

  • dalla “negazione” (L’Italia è un Paese civile e democratico, dove non si tortura, dunque l’introduzione di un reato che ne sanzioni la pratica sarebbe inutile: affermazione platealmente smentita dai fatti;
  • alla “attenuazione” (Se anche il fenomeno esiste, le norme vigenti offrono, una “batteria di norme repressive” adeguata a reprimerlo; sennonché, la molteplicità di fattispecie potenzialmente applicabili [artt. 581, 582, 594, 605, 606, 607, 608, 609, 610, 612, 613 c.p.] non riesce a comporre un quadro capace di cogliere l’essenza del fenomeno, così come descritto dalle fonti pattizie, né tanto meno di reprimerlo in concreto in maniera effettiva ed efficace);
  • fino ad una vera e propria “giustificazione”, vuoi nella forma della “ragion di stato” (La difesa della sicurezza di un Paese e del suo popolo può giustificare il ricorso alla violenza o alla coazione, per mettere in condizioni di non nuocere i feroci nemici delle libertà civili: è lo “stato di eccezione” di cui parlano i giuspubblicisti o la categoria del “diritto penale del nemico”, cara a certi settori della dottrina penalistica), vuoi nelle forme della giustificazione “individuale” (artt. 52 e 54 c.p.).

In realtà, le vere ragioni del ritardo sono forse altre (più politiche!); ma su queste ultime si avrà modo di tornare più avanti.

Prima è opportuno esaminare i contenuti del testo recentemente votato dal Senato e attualmente all’esame della Camera dei deputati. Il progetto di legge da cui è scaturito l’iter parlamentare è in realtà la sintesi, il precipitato di diverse proposte legislative, presentate all’inizio della XVII legislatura, e che delineavano diverse configurazioni possibili del reato di Tortura. Tale varietà si spiega col fatto che, per quanto gli strumenti internazionali forniscano una definizione di tortura sufficientemente chiara, non è facile tradurre questa definizione nel linguaggio del legislatore interno, anche perché si tratta di coordinare questa definizione con alcune questioni dommatiche che sono proprie di ogni sistema penale. Con ciò non si vuole certamente giustificare l’inerzia del nostro legislatore – perché con questi problemi il legislatore si deve confrontare ogni qualvolta si tratta di introdurre nuove incriminazioni. Semmai, si tratta di un dato da tenere presente, onde evitare di ritrovarci con una norma che non sia adeguata, vuoi rispetto agli obblighi internazionali, vuoi rispetto ai principi che regolano il nostro ordinamento interno.
Occorre a questo punto capire quali sono i nodi più problematici e come sono stati sciolti (almeno finora) dal legislatore. Per comodità del lettore può essere utile riportare il testo dell’introducendo art. 613 bis c.p., che, sotto la rubrica «Tortura», punisce con la reclusione da quattro a dieci anni «chiunque con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, … se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona».

Un primo ordine di problemi riguarda i soggetti coinvolti nei fenomeni di “tortura”, sia in qualità di autori, sia in qualità di vittime.
Con riferimento ai primi, l’alternativa è tra una tipizzazione come reato comune e una tipizzazione come reato proprio. Il testo approvato opta per la seconda soluzione, limitandosi a prevedere un (sia pur significativo) aggravamento di pena nell’ipotesi in cui il fatto sia commesso «da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio». Non è, peraltro, del tutto chiaro se si tratti di un’ipotesi autonoma o di una circostanza aggravante; nel secondo caso ci sarebbe pure il rischio che la presenza di eventuali attenuanti possa, all’esito del giudizio di bilanciamento, annullarne l’effetto di disvalore).
Tale scelta – che trova ampio riscontro nella dottrina penalistica – sembra sottendere un duplice ordine di preoccupazioni.
Da un lato, vi è il timore di determinare vuoti di tutela, per fatti ritenuti omogenei a quelli di tortura posti in essere da agenti pubblici, ma commessi materialmente da privati (si pensi a fatti commessi in una casa di cura, casa di riposo, collegio). Si tratta, però, di una preoccupazione non condivisibile. Pur ammettendo che condotte oggettivamente omogenee a quelle qualificabili come “tortura” siano realizzate anche da soggetti privati, le fattispecie presenti nell’ordinamento sono in linea di massima sufficienti a sanzionarle.
In secondo luogo, a sostegno dell’opzione per la Tortura come reato comune, si adducono le difficoltà di ordine dommatico ed applicativo in cui si andrebbe incontro nel tentativo di estendere la punibilità ai privati che agiscano su mandato di soggetti pubblici o con l’acquiescenza di questi. Nel primo caso, verrebbe in rilievo tutta la problematica del concorso morale e della causalità psichica; nel secondo, quella del fondamento e dei limiti della responsabilità per omissione, vuoi nella forma individuale, vuoi in quella concorsuale. Anche in questo caso si tratta di preoccupazioni non insuperabili. Quanto alla punibilità del pubblico ufficiale che favorisca o tolleri episodi di tortura, per esempio, l’obiettivo potrebbe raggiungersi attraverso la previsione di una “clausola di estensione della punibilità” ai fatti commessi dal privato «con il consenso, l’acquiescenza e la tolleranza» di un pubblico ufficiale, stabilendo altresì che quest’ultimo debba comunque rispondere di tale reato. Certo ci troveremmo di fronte ad un regime derogatorio rispetto ai principi che regolano il concorso di persone nel reato (principi che, per esempio, non ammettono, di norma, la punibilità della mera connivenza). Ma di deroghe in materia di concorso di persone il progetto di legge ne contiene già una (peraltro poco giustificabile) all’art. 115 in tema di istigazione. Il proposto art. 613 ter, infatti, punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni «Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta ma il delitto non è commesso»
A sostegno della scelta del “reato proprio” militerebbero, in realtà, molti buoni argomenti. Non solo la nozione “storica” di tortura e la definizione fornita dall’art. 1 CAT, ma soprattutto la preoccupazione che una configurazione della tortura come reato comune ne marginalizzi, fin quasi ad azzerarla, la specificità sul piano del disvalore. Per citare Tullio Padovani, degradare la tortura a reato comune «non costituisce solo un’innocua distonia (nel più sta il meno si potrebbe dire) in realtà apre la strada all’incongruenza e al paradosso» poiché «la tortura non offende tanto e solo i beni della persona di volta in volta aggrediti, ma soprattutto, demolisce lo status di cittadino e di persona in chi la subisce, degradandolo ad oggetto senza diritti e senza tutela: proprio ad opera dell’autorità che di quei diritti dovrebbe essere garante e quella tutela assicurare». È questo che attribuisce alla tortura un surplus di disvalore rispetto ai reati comuni; un surplus che non andrebbe in alcun modo “annacquato”. Non convince l’affermazione che – per giustificare la scelta in favore del reato comune – sottolinea come per la vittima non farebbe molta differenza che le torture “gli siano inflitte da un agente di polizia, dal membro di un gruppo paramilitare alle dipendenze di servizi deviati o da un gruppo di fanatici skin-heads che si pongano quale obiettivo quello di cospargere di benzina e appiccare fuoco ai senzatetto o agli stranieri”.  Vero che in ciascuno di questi casi si registra una deliberata inflizione di acuta sofferenza, fisica o psichica, su di una persona inerme; ma la nota essenziale della tortura, quella che ne contrassegna il disvalore, risiede nella circostanza che a infliggere la sofferenza, a offendere la dignità siano soggetti che per il ruolo che ricoprono sono istituzionalmente deputati a tutelare e a garantire quella dignità.
Se si adottasse il modello del reato proprio non ci sarebbe bisogno di alcuna delimitazione dei possibili soggetti passivi. Viceversa, la soluzione del reato comune suggerisce l’opportunità di operare una qualche selezione delle potenziali vittime, al fine di evitare applicazioni onnivore della disposizione. Il testo approvato dal Senato fa riferimento a «persona privata della libertà personale» ovvero affidata alla «custodia, potestà, vigilanza, controllo cura o assistenza» del soggetto attivo, o ancora a persona che «si trovi in condizioni di minorata difesa». Si tratta di una soluzione che ritaglia l’ambito di operatività della norma tenendo conto degli episodi di tortura più di frequente registrati dalla cronaca. Non vi è dubbio, infatti, che le situazioni nelle quali si rileva un rischio sensibile di sottoposizione a tortura siano quelle in cui il soggetto passivo si trova in condizioni lato sensu di detenzione, anche solo temporanea (in primis, i provvedimenti precautelari), e che non sono infrequenti le ipotesi in cui tra il torturatore e colui che è sottoposto a tortura vi è una qualche “relazione qualificata”, che vede il secondo in posizione subordinata rispetto al primo: il pensiero corre agli episodi di tortura posti in essere ai danni degli arrestati e dei fermati di Bolzaneto dai medici del pronto soccorso che avrebbero, invece, dovuto offrire loro assistenza sanitaria.
Meno convincente era la soluzione accolta nel testo approvato dalla Camera il 9 aprile 2015, ove si faceva esclusivo riferimento a «persona a lui affidata o comunque sottoposta alla sua autorità, vigilanza o custodia». Tale formulazione – oltre a creare un’indebita sovrapposizione con la fattispecie di Maltrattamenti contro familiari o conviventi (art. 572 c.p.) – risultava troppo restrittiva (pure ammettendo che il «comunque sottoposta» potesse coprire i casi di limitazione sine titulo della libertà personale). Restavano fuori, per esempio, i casi di gravi violenze, gratuitamente finalizzate a provocare sofferenza nelle vittime, compiute dalle forze di polizia nell’ambito di operazioni di ordine pubblico prima che le vittime medesime siano tratte in arresto. In altri termini, tale formulazione renderebbe la norma non applicabile a fatti come quelli avvenuti nella scuola Diaz durante il G8 di Genova.

Sul piano della descrizione del fatto incriminato, sono astrattamente ipotizzabili almeno tre diverse configurazioni. La prima è quella della tortura finalizzata a ottenere una confessione o a estorcere informazioni (è la nozione “storica”, quella cui pensava Cesare Beccaria). Poi c’è una nozione di tortura come gratuita inflizione di sofferenze. Infine, c’è la definizione fornita dalla CAT: tortura come violenza teleologica, ma con un ventaglio di fini sufficientemente ampio da cogliere le possibili manifestazioni del fenomeno.
Se la versione precedentemente approvata dalla Camera seguiva – con alcuni limiti – il modello della convenzione ONU, il testo approvato dal Senato concepisce la tortura come mera inflizione di sofferenze.
La dilatazione della tipicità è però solo apparente, essendo controbilanciata da una serie di elementi che – se mantenuti – potrebbero rendere assai difficoltosa la concreta applicazione della norma.
Basti pensare, a titolo esemplificativo, alla precisazione che il trauma psichico deve essere “verificato”, circostanza di per sé di difficile accertamento, specie se si considera la distanza spesso intercorrente tra fatto e processo. O ancora alla limitazione del rilievo penale alle sole minacce «gravi».
Motivo di forti perplessità è la scelta – adottata in Senato – di limitare l’applicazione dell’introducendo delitto di Tortura alle sole ipotesi in cui il fatto è «commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». In questo modo si determina l’incongrua sovrapposizione di due fenomeni – la tortura e i trattamenti disumani e degradanti – che l’art. 3 CEDU tiene distinti. Ma soprattutto si concepisce il reato di Tortura come un reato abituale, restringendone notevolmente l’ambito di applicazione. Si finisce così col frustrare le ragioni di politica criminale che militano in favore della sua introduzione: un singolo episodio di tortura non varrebbe, infatti, adintegrare il reato, potendosi lo stesso perfezionare solo con il compimento di una pluralità di atti che devono avere carattere usuale e ripetitivo; il che raramente accade nella prassi. Non va dimenticato che, nei contesti di tortura “ordinari” (diversi, per intenderci, dalle situazioni tipo “Guantanamo” o “Bolzaneto”), tutto si svolge in un unico contesto temporale, magari nell’arco di pochi minuti o, al più, di qualche ora; sicché riesce difficile accostare, già su un piano concettuale, il tipo legale “tortura” alle ipotesi paradigmatiche di reato permanente (in primis, il delitto di sequestro di persona) o abituale (i già citati delitti di maltrattamenti in famiglia e atti persecutori).
La scelta in favore del reato abituale si ricollega, probabilmente, a quella di polarizzare il disvalore del fatto sulla mera causazione di «acute sofferenze fisiche» o di un «verificabile trauma psichico», prescindendo da qualsiasi ulteriore proiezione finalistica di tali eventi. Nel testo approvato dalla Camera dei Deputati il 9 aprile 2015, invece, le sofferenze inflitte alla vittima non rilevavano in sé, ma in quanto finalizzate ad ottenere, dalla vittima o da un terzo, informazioni o dichiarazioni, ad infliggere una punizione, a vincere una resistenza, oltre che se commesse in ragione dell’appartenenza etnica, dell’orientamento sessuale o delle opinioni politiche o religiose.
La soluzione accolta dal Senato, peraltro, stride con l’inserimento tra i Delitti contro la libertà morale. Se è vero che la collocazione sistematica di una norma incriminatrice esprime il bene giuridico da essa tutelato, sarebbe preferibile classificare il reato tra quelli posti a tutela della vita e dell’incolumità individuale, dal momento che la nota caratterizzante la tortura è data dall’inflizione di sofferenze fisiche o morali.
Nessuna particolare osservazione critica merita la scelta degli eventi, se si esclude quanto già detto in merito al riferimento a un «verificabile trauma psichico». Corretto l’impiego del concetto di «sofferenza» (in luogo di quello più familiare alla “malattia”): poiché non sempre gli atti di tortura determinano l’insorgere di vere e proprie patologie medicalmente accertabili; ciò anche in ragione del progressivo raffinamento delle tecniche di tortura, che spesso consentono di non lasciare alcun segno sul corpo della vittima,. Come pure condivisibile è il riferimento alla “intensità” delle sofferenze. Si tratta di un elemento connaturata al tipo legale “tortura”, oltre che conforme alle definizioni contenute negli strumenti di diritto internazionale pattizio e alle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza sovranazionale (anche se l’interpretazione evolutiva delle carte dei diritti ha progressivamente determinato un abbassamento della “soglia minima di gravità” che consente di distinguere la tortura strictu sensu intesa dalle altre forme di mistreatments). Giusta, infine, oltre che in linea con la CAT, la precisazione secondo cui il reato non si applica «nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti».
Non convince del tutto, invece, la scelta di selezionare specifiche modalità di condotta («con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà»). Una volta optato per il modello di reato abituale di evento si poteva evitare l’inserimento di un’ulteriore strumento di selezione dei fatti penalmente rilevanti. Anche se il riferimento all’agire con crudeltà potrebbe consentire di recuperare tutte quelle condotte che, pur rappresentando modalità di realizzazione della tortura non assumono i connotati di una violenza o di una minaccia in senso tecnico (si pensi per esempio, privazione del sonno). Resta il fatto che il combinato di una costruzione della fattispecie come reato sì di evento, ma a forma vincolata e a condotta reiterata renderà assai problematica l’incriminazione di condotte omissive.
A fronte di così tanti elementi limitativi della tipicità, poi, si ridimensiona la portata innovativa della rinuncia al dolo intenzionale (presente, invece, nel testo adottato dalla Camera dei deputati)
Una valutazione complessivamente positiva merita la previsione di una serie di circostanze aggravanti per i casi in cui le torture arrechino offesa all’integrità fisica o alla vita della vittima. In particolare:

  • nei casi di lesioni personali e di lesioni personali gravi le pene sono aumentate di un terzo;
  • nei casi di lesioni gravissime sono aumentate della metà;
  • se deriva la morte come conseguenza non voluta la pena è la reclusione di 30 anni;
  • se la morte è cagionata volontariamente si applica l’ergastolo.

Se un appunto può essere mosso, riguarda la previsione della medesima comminatoria edittale (30 anni) per ipotesi che sono riconducibili tanto al paradigma dell’omicidio colposo, quanto a quello dell’omicidio preterintenzionale.

Non si affronterebbe compiutamente il tema se non si tenesse in debito conto un’altra questione. L’introduzione di reato di Tortura non è di per sé sufficiente ad assicurare un’effettiva ed efficace repressione del fenomeno. Non lo è nella misura in cui l’ordinamento non si sia in grado di prevenire il rischio che si attivino meccanismi di neutralizzazione della sua concreta applicazione.
Si pensi, per esempio, al tema della prescrizione. Il disegno di legge approvato al Senato tace sul punto; probabilmente si sono ritenuti gli elevati limiti edittali un antidoto sufficiente al rischio di prescrizioni facili. La situazione italiana, però, induce al pessimismo. Meglio, forse, sancire un regime di imprescrittibilità o, almeno, un regime derogatorio rispetto ai termini (angusti) attualmente previsti dalla nostra legislazione. Scelta, quest’ultima, che era stata adottata dalla Camera. L’estensione dei termini di prescrizione appare ragionevole anche in considerazione delle difficoltà di accertamento dei fatti di tortura, difficoltà alle quali non è estraneo il clima di omertà che li avvolge.
Un ulteriore strumento di neutralizzazione dell’applicazione del reato potrebbe essere rappresentato dal possibile riconoscimento di esimenti quali lo Stato di necessità (art. 54 c.p.) o l’adempimento dell’ordine del superiore o di un’autorità (art. 51 c.p.). La Convenzione ONU del 1984 prevede espressamente che tali scriminanti non possano operare nei casi di tortura. Anche una parte della dottrina italiana auspica l’introduzione di una qualche clausola espressa di limitazione. Non sembra, però, una previsione necessaria. Non si vede, infatti, come un atto di tortura possa considerarsi essere non solo facoltizzato, ma addirittura imposti da una legge dello Stato, indipendentemente da qualsiasi finalità di salvaguardia della sicurezza nazionale alla quale la stessa possa ispirarsi. Il rispetto del principio di legalità non consente alcuna deroga all’esercizio dei poteri della pubblica autorità; poteri i cui limiti sono fissati da norme di diritto pubblico, proprio a garanzia di tutti gli interessi coinvolti. Peraltro, i tentativi di giustificare episodi di violenza o abuso riconducibili al concetto di “tortura” attraverso il ricorso all’art. 54 c.p. sono stati prontamente stoppati dalla giurisprudenza (come nel noto “caso Dozier”).

È giunto il momento di tirare le somme dell’analisi fin qui condotta.
L’impressione è che dietro i rallentamenti nell’iter parlamentare del provvedimento come pure dietro la costante ricerca di soluzioni al ribasso si nascondono le vere ragioni del perché non si sia ancora giunti all’approvazione della legge. Ragioni che sono “squisitamente politiche”.
Da una parte c’è il sospetto che la mancata introduzione di una norma incriminatrice ad hoc nasconda il timore che possano essere assoggettati a pene severe i vertici delle forze dell’ordine, la cui nomina è appannaggio della politica, con la conseguenza che le responsabilità di questi vertici si riflettano sugli organi politici che li hanno designati.
Dall’altra, si paventa il rischio che una efficace criminalizzazione della tortura si traduca in una offesa alla “professionalità e dignità degli operatori della sicurezza” e in un “favore” ai criminali. Banalizzando al massimo, si arriva a paventare il rischio di spuntare le armi nella lotta al crimine.
Si tratta di argomenti talmente inconsistenti che non meriterebbero nemmeno di essere presi in considerazione, se non fosse per la carica demagogica e per la “presa” che possono (anzi che hanno) su certi settori dell’opinione pubblica.
Le forze dell’ordine di uno Stato democratico non dovrebbero avere “timore” dell’introduzione del reato di Tortura. Quest’ultimo non è contro le forze dell’ordine (a meno che non si voglia implicitamente difendere un clima di generalizzata violazione dei diritti). Al contrario, un’acquisita consapevolezza del fatto che abusi e violenze ingiustificate non sono tollerate può solo giovare a un rinnovato prestigio degli apparati di sicurezza, oltre che alla loro identificazione, da parte dei cittadini, come garanti dei loro diritti e delle loro libertà.
Nessuno può illudersi che con la sola introduzione del reato di Tortura si possa impedire il verificarsi di abusi o violenze da parte di singoli operanti all’interno di strutture umane e sociali – per di più improntane ad una organizzazione di tipo gerarchico e caratterizzate dall’impiego “legale” della coercizione. Quello che non si può tollerare è la mancanza di anticorpi in grado di isolare e reprimere questi episodi. Non c’è dubbio, del resto, che proprio l’impunità dei casi di tortura – non disgiunta da un clima di più o meno latente complicità (rectius tolleranza) da parte di frange del mondo politico –, sia una delle cause della loro frequente ricorrenza.
Valutato nel suo complesso, il testo approvato al Senato presenta numerosi motivi di perplessità (reato proprio, elementi di difficile accertamento processuale, irrilevanza degli episodi non reiterati di tortura, prescrizione ordinaria); tanto che ci sarebbe sinceramente da augurarsi un “cambio di passo” alla Camera che porti ad un intervento più efficace ed adeguato. Per altro verso, una modifica del testo comporterebbe un ulteriore prolungamento dell’iter parlamentare; mentre dietro l’angolo aleggia il fantasma di un rapido concludersi della legislatura, che si trasformerebbe in un’ennesima occasione mancata.

 

emanuele-la-rosa
Emanuele La Rosa

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