La decisione con la quale la Prima Sezione penale della Corte di cassazione ribadisce, per chiunque, “l’esistenza di un diritto di morire dignitosamente” non poteva generare sentimenti e reazioni diversi da quelli che ha generato: turbamento, delusione, rabbia, senso di sconfitta e di abbandono.
È vivo il ricordo delle morti feroci e disumane ordinate da chi oggi chiede una pena compatibile con le proprie gravi condizioni di salute, così come è viva la percezione della totale incompatibilità dell’operato mafioso – spietato e sanguinario – con qualsiasi forma di ‘umanità’.
Se, certo, è naturale e comprensibile domandarsi quale solidarietà possa mai essere riconosciuta a chi dell’efferatezza ha fatto la ragione della propria esistenza, non si può però chiedere allo Stato di rispondere con le stesse armi di un sistema che non condivide alcuno dei principi fondanti dell’Ordinamento né di esasperare la divaricazione di trattamento penitenziario tra detenuto ordinario e detenuto pericoloso, fino a tradire quel “senso di umanità” della pena, scolpito nell’art. 27 della Costituzione.
A ben vedere, comunque, la sentenza della Corte di cassazione sul “caso Riina”, non si piega affatto ad un indulgenzialismo caritatevole e rinunciatario. I giudici non hanno mai messo in discussione il regime detentivo previsto dall’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario (al quale Riina si trova stabilmente sottoposto), né tantomeno hanno ‘parteggiato’ per una sospensione della pena carceraria nei suoi confronti, giustificata dalle gravi ragioni di salute. Tutt’altro.
Nella pronuncia è solo uno, infatti, il profilo conduttore e dominante: la carenza e la contraddittorietà della motivazione dell’ordinanza con la quale il Tribunale di Sorveglianza di Bologna ha rigettato la richiesta di differimento dell’esecuzione della pena (o, in subordine, di detenzione domiciliare) presentata dai legali dell’ormai vecchio e malandato capo indiscusso di “cosa nostra”.
Lungi dal lasciarsi muovere a pietà davanti alle umane miserie di un moribondo, può dirsi invece che i giudici di legittimità abbiano voluto, con fermezza, richiamare alla disciplina ed al rigore i colleghi della Sorveglianza, sollecitandoli a mai disattendere né sottovalutare l’obbligo costituzionale di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali (art. 111, comma 6), nemmeno di fronte alle incarnazioni delle peggiore realtà delittuose.
Sembra corretto, piuttosto, ritenere che con questa sentenza si sia voluta affermare la superiorità dello Stato e la sua incondizionata distanza da qualunque rischio di contaminazione con quei sistemi operativi sommari e irragionevoli di chi allo Stato si è contrapposto con ferocia e consapevolezza.
Il giudice, attraverso la cui voce l’Ordinamento si esprime, non può permettersi di essere superficiale, parziale, carente e contraddittorio, neppure quando ad essere trattata è la posizione del responsabile di una tra le più pericolose e destabilizzanti organizzazioni criminali.
Che Riina resti in carcere, quindi, ma che lo Stato sia capace, senza tentennamenti né contraddizioni, di affermare a chiare lettere e al di sopra di ogni possibile attacco che la sua carcerazione, sebbene in condizioni di grave malattia, è pienamente doverosa e legittima.
Ancora di più: che lo Stato non abbia difficoltà di trovare gli strumenti operativi che rendano la carcerazione – e l’eventuale morte che durante la sua esecuzione dovesse sopraggiungere – totalmente compatibile con i principi di dignità e di umanità sui quali si sorregge.
Ed è proprio il passaggio sulla “morte dignitosa” quello nel quale emerge netta la necessità di una motivazione scrupolosa ed inoppugnabile, degna dei parametri costituzionali e sovranazionali di riferimento.
L’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza, infatti, in maniera poco felice sosteneva che la possibile morte del condannato gravemente malato rappresenta “una condizione di natura, comune a tutti gli appartenenti al consesso umano, anche non detenuti e, pertanto, una circostanza neutra ai fini della valutazione del senso di umanità richiesto dalla costituzione nell’espiazione della pena”. Davanti a questa affermazione, il Collegio della Prima Sezione dissente e ribadisce, appunto, la necessità di non sottovalutare il diritto a morire con dignità.
Provando a far dire alla Corte ciò che non ha apertamente detto: che lo Stato non abbia paura di affermare che anche in carcere si può morire dignitosamente, specialmente quando a dover morire è un soggetto il cui spessore criminale e la cui altissima pericolosità hanno giustificato l’applicazione di un regime carcerario speciale, fondato su un accentuato isolamento del soggetto recluso.
Ancora una volta, così come è stato e continua ad essere per il sistema di c.d. “carcere duro” previsto dall’art. 41 bis O.P. , sarà necessario trovare un punto di equilibrio tra serietà ed efficacia della lotta alle realtà criminali organizzate, intese come “fenomeno sociale”, ed umanità del trattamento penitenziario: in questa ricerca, il legislatore e l’interprete non dovranno lasciarsi attrarre né dalla facile seduzione retributiva né dall’altrettanto ammaliante difesa dei diritti fondamentali.
Spostare l’attenzione sul singolo individuo, concentrandosi sulla dimensione strettamente personale dell’esecuzione della pena, potrebbe prestare il fianco ad istanze garantiste che rischiano di frammentare e indebolire la risposta complessiva al fenomeno mafioso o terroristico: risposta che per essere efficace deve restare unica e globale, senza troppo indulgere alla ‘tenerezza’ verso il detenuto.
Del resto, a poco servirebbe insistere sulla tutela, a tutti i costi, dei diritti dell’uomo senza tenere conto delle pressanti esigenze di sicurezza pubblica che l’art. 41 bis mira a soddisfare. Pertanto, se è vero è che è la singola persona a scontare la pena, è altrettanto vero che questa persona è stata parte di un “fenomeno” che solo attraverso l’interruzione dei rapporti tra i singoli ha speranza di essere domato.
Con i necessari adattamenti imposti dalla questione concreta, anche per le ipotesi di rinvio facoltativo di esecuzione della pena dovuto a condizioni di grave infermità fisica (art. 147, comma 1, n. 2, c.p.), bisognerà saper trovare il punto di convergenza tra l’esigenza di garantire una morte dignitosa ad un detenuto in avanzato stato di decadimento fisico e le caratteristiche proprie del “fenomeno mafioso” di cui egli è incarnazione e dirigente (fenomeno nelle cui dinamiche non sarebbe certo di ostacolo il grave decadimento fisico per il ristabilimento di canali di collegamento e di comando ancora troppo pericolosi per la sicurezza sociale).
Lo Stato italiano possiede e saprà trovare gli strumenti idonei a garantire una morte dignitosa a un detenuto senza compromettere la dignità della propria lunga ed imponente opera di contrasto alle più aspre forme di criminalità.
Teresa Travaglia