Alcune mie brevi pillole (o, se preferite, supposte) sul risultato elettorale.
I vincitori sono due, senza se e senza ma: M5S e Lega. Si chiama sovranità popolare.
Sono due partiti diversi ma con molti punti in comune. Hanno radicamento geografico differente: forte la Lega al nord ma presente anche al sud, dominanti i pentastellati nel meridione ma votati anche nel settentrione.
Il responso delle urne è chiaro: governino. Questa legge elettorale, giustamente molto criticata, ha però un aspetto forse trascurato dai più. E’ sostanzialmente di tipo proporzionale. E con un sistema di questo tipo, le maggioranze parlamentari si creano dopo il voto. Sempre è stato così e sempre lo sarà perché è nella natura del voto proporzionale dare voce alle svariate sensibilità di un corpo elettorale rappresentate da forze politiche che ragionevolmente possano conseguire un risultato tale per governare da sole.
Oggi M5S e Lega hanno la responsabilità di chi ha vinto. Accantonino i toni da campagna elettorale, smussino gli angoli e rafforzino gli elementi in comune. Che ci sono: sulla gestione del fenomeno migratorio, sulla politica fiscale, sull’anti europeismo, sulla giustizia ed altri ancora.
Salvini non può sbandierare la bandiera del centro destra per sottrarsi alla responsabilità di governo né Di Maio può isolarsi politicamente per cercare di arrestare un possibile malcontento interno in caso di alleanze. Non può chiedere al PD, derenzizzato o meno, il suicidio politico per sostenere un governo M5S.
I primi passi, invece, sembrano orientati ad una volontà di sfuggire dalle responsabilità di governo, consapevoli del fatto che dal 1994 in poi chi ha guidato il Paese ha perso le elezioni successive.
Gli elettori hanno tributato a Salvini e Di Maio l’onore della vittoria: ora hanno l’onere di governare.
Altri spunti.
Forza Italia ha perso. Il suo leader ottuagenario non guida più la coalizione di centrodestra né presumibilmente potrà farlo alla prossima tornata elettorale. Negli anni non è riuscito a strutturare un partito né una classe dirigente, che ha più le sembianze di una banda di cortigiani di basso impero destinata a scomparire con l’eclissarsi del suo leader mai discusso. Un partito di plastica che il trascorrere degli anni ha lentamente eroso, destinandolo al ruolo di mero compartecipe della scena politica italiana.
Leu è morto al primo battesimo elettorale. Mascherato da icona della sinistra, si è immediatamente appalesata la sua reale natura, cioè quella di un’operazione della vecchia nomenclatura della sinistra italiana rottamata da Renzi che desolatamente si aggrappa al potere con unghie e denti. Una compagine che non ha mai parlato al cuore ed alla pancia degli italiani che l’hanno cestinata tra le operazioni inutili di queste elezioni politiche. Il canto del cigno di D’Alema e sodali.
Gli inglesi direbbero at last but not least il PD. Esce maciullato dagli elettori. Paga oltremodo le responsabilità di avere governato, ma ben oltre quel livello fisiologico tipico della seconda repubblica. Ma, soprattutto, sconta l’arrogante miopia di Renzi che, dalla rottamazione in poi, aveva avviato una fase di modernizzazione della politica e della struttura del suo partito, ma che strada facendo ha perso l’abbrivio iniziale, commettendo una serie di errori fatali tra i quali spicca la personalizzazione del referendum. Ma se la maggioranza del PD piange, la minoranza non può certo ridere. Spesso ancorata a vecchie logiche, politicamente strabica con un occhio rivolto alle componenti più estreme che man mano lasciavano il partito e l’altro occhio strizzato alle posizioni più moderate che nel frattempo prendevano piede. Mai realmente radicato nel territorio, il PD ha perso le sue caratteristiche originarie che ne facevano un soggetto politico penetrato nel tessuto sociale senza mai acquisire definitivamente i connotati di un partito realmente moderno, riformista e liberale in scia con il labour party inglese o i democrats statunitensi.
E’ tornato all’anno zero. Ma, a differenza di Forza Italia che seguirà il lento ma inesorabile declino del suo leader, il PD non è un partito padronale. Può e deve ripartire da una nuova classe dirigente, che in parte già esiste, attraverso un congresso che non sia figlio delle tessere e delle posizioni acquisite ma frutto del rilancio di idee moderne, liberali e riformiste.
E da questa breve riflessione nasce l’ultimo spunto.
Ci si chiede dove sia finita la sinistra. Qualcuno addirittura ipotizza che sia incarnata dal M5S. Credo che l’interrogativo sia superato. La sinistra, almeno così come sempre è stata intesa, non esiste più. E non solo in Italia ma in tutto il resto del mondo. Basti guardare alla Francia. Caduto il muro di Berlino e la logica dei blocchi contrapposti, il mutamento della società e del mondo del lavoro, hanno fatto venir meno la ragion d’essere di una sinistra classicamente intesa. In pochi lo hanno capito, in tanti l’hanno ancora inseguita come una chimera che nel sentimento dei popoli e nelle sensibilità degli elettori non esiste più.
Oggi, all’indomani del voto, il quesito è un altro: dove è finito il centro?
Per centro intendo quella posizione nel panorama politico tra gli egualitaristi (storicamente di sinistra ed oggi rappresentati dal M5S) ed i conservatori di destra (rappresentati sostanzialmente da Lega ed altre formazioni politiche minori). Norberto Bobbio, già nel 1994, si chiedeva se destra e sinistra esistessero ancora e, soprattutto quale significato avessero. Forse, gli elettori gli hanno dato una risposta. Vedremo. Ma quello che manca davvero, come detto, è la posizione centrista, che in Europa è rappresentata dal partito popolare europeo (leggermente orientato verso destro) ed il partito democratico europeo (sbilanciato verso sinistra). Ma in Italia oggi queste posizioni sono assenti o scarsamente rappresentate. Non esiste un soggetto politico moderno, democratico, liberale e riformista che sappia ascoltare i bisogni e dare risposte pragmatiche alle esigenze.
La mia idea è che gli italiani siano centristi nella loro essenza, e che non trovando rappresentanti politici adeguati esprimano un consenso elettorale in modo irrazionale ed umorale.
Oggi, una classe politica seria deve dare una risposta ad un ceto medio variamente ramificato nelle sue figure sociali e produttive. Si chiami PD o si inventi la sigla che più piaccia agli esperti di marketing elettorale, quel che conta davvero è dare voce con le idee ad una grandissima parte di italiani che oggi, a prescindere dal risultato elettorale, non si sentono rappresentati. Occorre rimboccarsi le maniche e profondere impegno. La politica è studio dei fenomeni (sociali ed economici) ed elaborazioni delle soluzioni. Niente più deleghe in bianco, niente più improvvisazioni, niente più fenomeni da baraccone. Sobrietà, onestà, competenza, pragmatismo le parole d’ordine.
L’alternativa è lasciare definitivamente campo a quella che il filosofo canadese Alain Deneault ha definito mediocrazia. «Non c’è stata nessuna presa della Bastiglia, niente di paragonabile all’incendio del Reichstag, e l’incrociatore Aurora non ha ancora sparato un solo colpo di cannone. Eppure di fatto l’assalto è avvenuto, ed è stato coronato dal successo: i mediocri hanno preso il potere».
Con animo italiano (e non italiota)
Massimo Rizzo