Ha destato assai scalpore la notizia che un processo che vedeva imputata una persona accusata di violenza sessuale su una bambina di sette anni, dopo venti anni, si sia concluso con una sentenza che ha dichiarato la prescrizione del reato.
E’ ovvio che una pronuncia di questo tipo susciti incredulità, vergogna, frustrazione, impotenza. Ma non meraviglia chi, per professione, conosce il sistema giustizia. Il tema è strettamente correlato a quello della prescrizione, dai più additata come il male, la ragione della mancata giustizia. Ma non è così. La prescrizione non è la causa, è l’effetto.
Salvo voler approcciare il tema con pregiudizio ideologico o corporativistico, bisogna comprendere per poter giudicare. Ed allora, occorre anzitutto dire che l’istituto della prescrizione trova la sua ragion d’essere nella nostra Costituzione. L’art. 111 sancisce il principio della ragionevole durata del processo. Chi di noi ha dubbi sul fatto che 20 anni siano un tempo sufficiente per celebrare un processo?
Ancora, l’art. 27 della Costituzione, contiene uno dei capisaldi del sistema penale, e cioè la funzione rieducativa della pena. Senza volere aprire la maglia dell’applicazione concreta di questo principio, va affermato che la scienza penalistica concordemente ritiene che, con il decorso del tempo, appare inutile e dannoso l’esercizio della funzione repressiva dello Stato. Le esigenze di prevenzione, infatti, si affievoliscono sino a venire meno con il trascorrere del tempo senza che sia intervenuta una sentenza definitiva di condanna.
I principi sono sacri e non possono essere messi in discussione.
La domanda, allora, non è se sia giusto dichiarare prescritto un reato (nel caso particolare anche particolarmente odioso) ma come è possibile che non riesca a celebrarsi un processo in venti anni. Vale a dire che non deve essere criticato il principio ma l’intero sistema giustizia, la cui inefficienza determina ingiustizia.
Allungare i termini di prescrizione, come taluni disgraziatamente chiedono, significherebbe aggiungere ingiustizia all’ingiustizia. Vorrebbe dire arrendersi all’incapacità di rispondere alla domanda di giustizia, alzare le mani dinanzi all’inefficienza, dichiarare la resa dello stato di diritto.
Certo, sarebbe più facile, placherebbe la sete di rabbia dei social, ma rappresenterebbe la vera sconfitta.
Piuttosto, un approccio serio al problema dovrebbe analizzare le cause dell’inefficienza e rimuoverle. Il nodo centrale resta quello della durata del processo, della sua organizzazione, delle sue procedure che, fra l’altro, hanno procurato all’Italia tante condanne da parte della Corte Europea. Troppo spesso sono state denunciate supposte ipertrofie garantistiche e cavillosità avvocatesche quali cause della cattiva giustizia. Da qui, le ingiuste pretese di comprimere il diritto di difesa che consegnerebbe il processo all’autoritarismo giudiziario.
I dati empirici sconfessano questa tesi. L’abnorme durata dei processi non è causata da eccessi di garanzie, come certa politica acefala irresponsabilmente afferma, ma dal dissesto dell’apparato giudiziario, di cui la prima vittima è l’imputato e, conseguentemente, la persona offesa dal reato.
Spesso si sente dire: l’imputato ricco ha l’avvocato bravo che fa rinviare il processo e così il reato si prescrive. Che amenità!
Uno studio operato dall’Istituto di ricerca Eurispes, ha analizzato le ragioni di rinvio delle udienze.
Leggete bene, e meditate. Il legittimo impedimento dell’imputato determina il rinvio del 2,6% dei processi. L’impedimento del difensore il 5%. Sommati i due dati, si determina un risultato di scarsa rilevanza numerica. Ma v’è di più. Gli opinionisti da strapazzo non vi forniscono un importante elemento di valutazione. Il legittimo impedimento dell’imputato quanto quello del suo difensore possono costituire valida ragione di rinvio di un processo solo in presenza di molteplici condizioni, tutte regolate dal codice di rito. Ma, soprattutto, entrambi i rinvii per le suddette ragioni determinano una sospensione del termine di prescrizione!
Lo studio Eurispes ha piuttosto evidenziato che le principali cause di rinvio attengono a problemi tecnico-logistici, carico del ruolo ed assenza del giudice titolare. Tutte cause figlie di carenze strutturali e di organico.
A dette inefficienze, sempre trascurate dalla politica e sempre troppo poco denunciate, si aggiungono “ragioni” di politica giudiziaria.
Il processo oggetto della cronaca di questi giorni è rimasto fermo in Corte di Appello nove anni. Colpa degli avvocati? Responsabilità dell’imputato?
Altri processi, sui quali sono perennemente puntati i fari bramosi dei media, seguono binari preferenziali. A titolo esemplificativo, tra la condanna di Berlusconi in appello e la sentenza definitiva della Corte di Cassazione sono trascorsi pochi mesi. Ma tanti altri sono gli esempi.
Insomma, ci sono processi e processi, e quelli che fanno parte del circo mediatico viaggiano veloci. Che scempio.
Per quale ragione? Per rispondere a questa domanda, non può bastare un esame superficiale delle questioni. E’ il sistema che non funziona, e quando il malato è grave non sono sufficienti i pannicelli caldi.
Mettere mano ad una radicale riforma del pianeta giustizia. Questa è la risposta che uno Stato serio deve dare, quella che i cittadini devono pretendere, rifuggendo dal becero qualunquismo figlio dei giorni nostri.
Montesquieu affermava che giustizia ritardata è giustizia denegata. Il livello di civiltà di un Paese si misura dal grado di efficienza della sua Giustizia. E noi siamo alquanto incivili.
Con animo sereno
Massimo Rizzo