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Testamento biologico: contenuti e limiti del testo di legge approvato alla Camera

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La Camera dei deputati ha approvato, in prima lettura, lo scorso 20 aprile un disegno di legge in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento. Il testo è ora al vaglio del Senato e non è dato sapere, al momento, se vedrà la luce prima della fine della legislatura.
Non si tratta del primo tentativo d’introdurre una disciplina in materia di biotestamento. L’esistenza di un diritto di morire è uno dei temi più controversi tra filosofi e giuristi ed è una questione sulla quale l’opinione pubblica finisce sempre, irrimediabilmente per dividersi, poiché il tema, com’è ovvio, coinvolge le convinzioni più profonde e intime delle persone.
Sono ormai diverse le vicende che hanno infiammato lo scontro tra i sostenitori delle varie posizioni in campo (si pensi alle storie di Piergiorgio Welby, Eluana Englaro e, più di recente, di Fabiano Antoniani, già ricordate in questo sito).
In mancanza di una legge, tuttavia, alcuni importanti principi in materia di “fine vita”, da tempo, sono stati riconosciuti dalla giurisprudenza. In particolare, proprio nell’ambito della vicenda giudiziaria relativa alla Englaro, la Corte di cassazione ha affermato che il principio del consenso informato ha un “sicuro fondamento” negli artt. 2, 13 e 32 Cost. ed è riconosciuto dalla legislazione nazionale, da fonti normative internazionali, dalla deontologia medica e dalla stessa giurisprudenza. Tale principio impone al medico di condizionare il proprio intervento, anche se svolto nell’interesse del paziente, al consenso libero e informato di quest’ultimo, il che implica anche la facoltà di “rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale”. Il consenso informato permette, dunque, l’esercizio del diritto all’autodeterminazione del paziente. Problemi notevoli sorgono, com’è noto, quando il soggetto interessato non è in grado di manifestare la propria volontà perché versa in uno stato di totale incapacità e non abbia precedentemente indicato, quando era nel possesso delle proprie facoltà, le terapie che egli avrebbe desiderato ricevere e quelle che, invece, avrebbe rifiutato qualora si fosse trovato in uno stato d’incoscienza. Anche in tale condizione, tuttavia, ha affermato ancora la Corte di cassazione, “il valore primario ed assoluto dei diritti coinvolti esige una loro immediata tutela ed impone al giudice una delicata opera di ricostruzione della regola di giudizio nel quadro dei principi costituzionali” (Cass., sez. civ., sent. n. 21748/2007).
Nel caso d’incapacità del paziente, la “doverosità medica” continua a trovare legittimazione nel principio solidarista (espressamente riconosciuto dall’art. 2 Cost. – secondo il quale la Repubblica richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale – ma desumibile dall’intera trama normativa dell’ordinamento), il quale impone di effettuare gli interventi urgenti nel miglior interesse terapeutico del paziente. E, tuttavia, anche in tali circostanze, superata l’urgenza dell’intervento derivante dallo stato di necessità, occorre “ricreare il dualismo dei soggetti nel processo di elaborazione della decisione medica: tra medico che deve informare in ordine alla diagnosi e alle possibilità terapeutiche, e paziente che, attraverso il legale rappresentante, possa accettare o rifiutare i trattamenti prospettati”. A tale scopo è stata valorizzata la figura del tutore dell’interdetto, i cui doveri di cura della persona in stato d’incapacità si sostanziano nel prestare il consenso informato al trattamento medico. Il tutore – ha precisato ancora la Cassazione – non è titolare di un potere assoluto di disporre della salute della persona incapace ma deve agire nell’esclusivo interesse dell’incapace (decidendo non “al posto” dell’incapace né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace e, quindi, ricostruendo la “presunta volontà” del paziente incosciente, tenendo conto “dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche”).
In conclusione, la Cassazione ha affermato che, l’interruzione della terapia nei confronti del paziente incapace (compresa l’idratazione e l’alimentazione artificiali) può essere autorizzata dal giudice quando ricorrano due condizioni: a) lo stato vegetativo è, “in base ad un rigoroso apprezzamento clinico”, irreversibile e non vi è “alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno”; b) tale istanza è realmente espressiva, in base ad “elementi di prova chiari, concordanti e convincenti, della voce del rappresentato, tratta dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona” (Cass., sez. civ., sent. n. 21748/2007).
Il Senato, nel 2009, in seguito alla vicenda Englaro, aveva approvato un disegno di legge sul testamento biologico, che, tuttavia, non tutelava il principio di autodeterminazione responsabile. Nel testo si proponeva una discutibile distinzione tra terapie d’idratazione e alimentazione e “trattamenti sanitari”; mentre a questi ultimi si poteva, di norma, rinunciare, non sarebbe stato possibile rifiutare le terapie d’idratazione ed alimentazione. Le disposizioni sulle direttive anticipate di trattamento avevano, poi, una portata meramente orientativa o indicativa del consenso del paziente, poiché si prevedeva la possibilità per il medico di discostarsene.
La distinzione tra “trattamenti sanitari” e nutrizione e idratazione artificiale (NIA) è stata superata, come subito si dirà, dal nuovo testo attualmente in discussione in Parlamento.
La questione sta nei seguenti termini. L’art. 32, secondo comma, Cost. prevede che nessuno può essere obbligato a un determinato “trattamento sanitario” se non per disposizione di legge e che “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Da un lato, si esclude, dunque, un generale dovere di curarsi (ognuno è, di regola, libero di rifiutare le cure) e, dall’altro lato, si prevedono alcune condizioni che vincolano il legislatore che voglia imporre una determinata cura. Come ha chiarito la Corte costituzionale, soltanto la necessità di curare la salute altrui – e, dunque, la salute come “interesse della collettività” (secondo la formula impiegata dall’art. 32, primo comma, Cost.) – può giustificare la compressione del diritto all’autodeterminazione del soggetto (Corte cost., sent. n. 307/1990). La conseguenza è che una legge che imponesse al malato di curarsi, senza che ciò dipendesse dall’esigenza di tutelare la salute degli altri, sarebbe molto probabilmente illegittima (in tal senso, di recente, Casonato). L’esclusione della NIA dai “trattamenti sanitari” era, dunque, funzionale a superare i limiti previsti dall’art. 32 Cost., consentendo, di fatto, l’alimentazione e l’idratazione forzata, anche contro la volontà del soggetto interessato. Una posizione che non teneva conto del fatto che la NIA è un trattamento che “sottende un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici, e consiste nella somministrazione di preparati come composto chimico implicanti procedure tecnologiche” (Cass., sez. civ., sent. n. 21748/2007; nello stesso senso anche Consiglio di Stato, sent. n. 4460/2014). Com’è stato scritto, “parrebbe davvero paradossale negare la qualifica di ‘trattamento sanitario’ ad una attività che solo un medico potrebbe gestire, compiendo chiunque altro il reato di esercizio abusivo della professione (medica, appunto)” (Casonato). A ciò si deve aggiungere che il consenso informato non può riguardare solo i “trattamenti sanitari” in senso stretto (tra i quali pure deve farsi rientrare la NIA), ma tutti gli interventi rientranti nel “campo della salute” e “nell’ambito della medicina” (come rispettivamente si esprimono l’art. 5 della Convenzione di Oviedo e l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europa).
In ogni caso, a dover essere rispettato non è soltanto l’art. 32 ma anche l’art. 13 Cost., che riconosce come inviolabile la libertà personale. Anche quella del malato terminale.
Il disegno di legge sul testamento biologico ora al vaglio del Senato contiene “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”. Vediamo quali sono i contenuti principali del testo.
All’art. 1 si afferma, innanzitutto, che nessun trattamento e diagnosi possono avere luogo senza il consenso libero e informato della persona interessata. Il consenso non deve essere necessariamente espresso per iscritto ma può essere manifestato anche attraverso videoregistrazioni o, per la persona affetta da disabilità, mediante dispositivi che le consentano comunque di comunicare. Il malato può rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni e indicare una persona di sua fiducia incaricata di ricevere le informazioni in sua vece. La volontà espressa dal paziente dovrà essere rispettata dal medico che, di conseguenza, sarà esentato da responsabilità civili o penali. Il malato può rivedere le proprie decisioni in qualsiasi momento, anche se la revoca riguarda l’interruzione d’idratazione e nutrizione artificiali. Si prevede, infatti, espressamente che “sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici”. Se il paziente esprime la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente (e, se questi acconsente, ai suoi familiari) le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative, promuovendo ogni azione di sostegno al paziente e avvalendosi eventualmente dei servizi di assistenza psicologica. Ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà, l’accettazione, la revoca e il rifiuto sono comunque annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. Si prevede, inoltre, che il paziente “non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”. Tale previsione è apparsa ambigua, poiché, qualora per “obblighi professionali” si intendano quelli previsti dall’ordinamento professionale e dalle norme deontologiche, non si comprende come un medico possa rifiutare una richiesta del paziente che sia conforme alla legge, ma contraria a precetti deontologici (così Rossi). Questi ultimi finirebbero con l’essere assimilati alle norme generali dell’ordinamento, con possibili rischi per la piena protezione del diritto all’autodeterminazione del soggetto.
L’art. 3 dispone che il consenso informato al trattamento del minore è espresso o rifiutato dai genitori, tenendo tuttavia in conto la volontà del malato in relazione alla sua età e al suo grado di maturità. Il consenso della persona interdetta è espresso o rifiutato dal tutore, considerando ove possibile la volontà del malato. Infine, nel caso di persona inabilitata, il consenso è espresso dal malato stesso; qualora il rappresentante legale di persona minore o interdetta o inabilitata, in assenza delle Disposizioni anticipate di trattamento (DAT), rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare.
L’art. 4 introduce le DAT, che permettono di tutelarsi da eventuali future situazioni d’incapacità di autodeterminazione. Si prevede che, attraverso tale strumento, ogni persona maggiorenne e capace d’intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito le necessarie informazioni può, attraverso le DAT, esprimere “le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari”. Può indicare, inoltre, un “fiduciario”, che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie. Nel caso in cui le DAT non contengano l’indicazione del fiduciario o qualora questi vi abbia rinunciato o sia deceduto o sia divenuto incapace, le DAT mantengono comunque efficacia in merito alle volontà del disponente. Il medico è tenuto al rispetto delle DAT, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano “palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”. Nel caso di conflitto tra il fiduciario e il medico, la decisione è rimessa al giudice tutelare. Le DAT devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata o, ancora, per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo, che provvede all’annotazione in apposito registro (se istituito) oppure presso le strutture sanitarie, qualora siano attrezzate. Nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, le DAT possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare. Con le medesime forme esse sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento. Qualora ragioni di emergenza e urgenza impediscano di procedere alla revoca delle DAT con le suddette forme, la revoca può avvenire con dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico, in presenza di due testimoni.
Il testo segna un importante passo avanti nella tutela giuridica del principio di autoderminazione dei pazienti. Come pure è stato ribadito, la disciplina del biotestamento non comporta la legittimazione dell’eutanasia, che è vicende del tutto diversa, consistendo nell’azione volta a provocare volontariamente la morte a una persona affetta da malattia incurabile, per porre fine alle sue sofferenze (Di Cosimo). Le Disposizioni anticipate di trattamento consentono semplicemente di esprimere la propria volontà di sospendere le cure mediche nel caso che in futuro ci si trovi in condizioni d’incapacità o d’incoscienza.
La proposta di legge sul testamento biologico, pur presentando qualche imperfezione, va salutata positivamente, poiché sembra finalmente voler riconoscere ai cittadini italiani la possibilità di esprimere la propria volontà sul “fine vita”. Il testo esaminato appare coerente con i principi di una bioetica laica, la sola, com’è stato scritto, coerente “con la natura stessa del diritto secolarizzato” (Risicato). Una normativa che assicura a tutti la libertà di autodeterminazione è, del resto, quella in grado di soddisfare al meglio le esigenze di garanzia della dignità umana, in tutte le sue possibili declinazioni.

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Alessandro Morelli

 
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Simona Raffaele

 

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