Raccogliendo l’invito, amichevolmente rivoltomi da Alessandro Morelli, proverò a sviluppare qualche riflessione, frigido pacatoque animo, sulla controversa sentenza n. 24084 della prima Sezione penale della Cassazione, depositata il 15 maggio scorso, relativa alla illiceità del porto in pubblico del kirpan da parte dei fedeli sikh.
Non può sfuggire che la vasta risonanza suscitata dalla pronunzia nei mezzi di informazione non si spiega per l’importanza che si sarebbe voluto riconoscere alla specifica questione esaminata e decisa dalla Corte: ne è riprova eloquente il fatto che l’analogo orientamento espresso, meno di un anno fa, da due sentenze, della stessa prima Sezione penale della Cassazione (1° marzo 2016, dep. il 14 giugno 2016, n. 24739 e 24 febbraio 2016, dep. il 16 giugno 2016, n. 25163) – di là dell’interesse ovviamente suscitato tra gli “addetti ai lavori” (per approfondimenti dei profili più strettamente tecnici della questione si può vedere il mio scritto pubblicato su Stato, Chiese e pluralismo confessionale, n. 1/2017) – era passato praticamente sotto silenzio. Gli stessi commenti “a caldo” di alcuni studiosi, apparsi già all’indomani della pubblicazione della sentenza, non si sono appuntati sui contenuti concreti e sulle conseguenze pratiche immediate della decisione, ma hanno preso di mira il passaggio della motivazione secondo il quale sarebbe essenziale «l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi» (si vedano, per tutti, in questo blog, le puntuali riflessioni di Alessandro Morelli).
Non manca, per la verità, chi ha proprio contestato l’«applicazione al caso di specie» del principio affermato dalla Cassazione, considerato che la «legge italiana», cui si chiede allo straniero di «conformarsi», «prevede anche la libertà religiosa» e che il kirpan non è «un’arma ma… un simbolo identitario essenziale che milioni di sikh in tutto il mondo portano senza problemi e con rari incidenti» (M. Introvigne). Ma è sull’intrinseca correttezza dell’affermazione di principio fatta dalla Cassazione che ci si è maggiormente soffermati e appare destinato ad ulteriormente infiammarsi il dibattito: qualche studioso vi ha ravvisato qualcosa di assolutamente innocuo, additando piuttosto la stampa come responsabile di un completo travisamento del senso del passaggio della motivazione della sentenza (R. Bin); altri, invece, hanno giudicato l’affermazione quanto meno incauta, in quanto ne deriverebbe, secondo, ad esempio, la posizione assunta dal Consiglio direttivo dell’Associazione dei docenti universitari della disciplina giuridica del fenomeno religioso (ADEC), una sorta di «dichiarazione di presunti “valori occidentali”» che sarebbero posti come limiti al pluralismo.
Dunque, tanto rumore per nulla, oppure c’è qualcosa di cui bisognerebbe effettivamente preoccuparsi? È bene che si prenda sul serio l’espressione “incriminata” oppure il dibattito che ne è scaturito è solo l’effetto dell’incontrollato, e ormai forse incontrollabile, diffondersi delle fake news (per riprendere ancora i termini dell’intervento di Bin)?
Senza dubbio, la portata sostanziale dei problemi di convivenza tra identità diverse, tipici delle moderne società multiculturali, è enorme, va oltre i risvolti “di superficie” che pronunzie come quella in esame contribuiscono a fare emergere e può anche intaccare le basi stesse del pacifico e proficuo stare insieme. Bene, quindi, si è fatto a richiamare la centralità di questi temi, a mettere in guardia dal rischio di eccessive semplificazioni, a sottolineare l’utilità di un approccio che faccia tesoro delle “sensibilità” e delle esperienze di studiosi “specialisti” (si v. il documento già richiamato del direttivo ADEC). Meno giustificata, invece, mi sembra ogni eccessiva insistenza sulla carica dirompente delle affermazioni della Corte.
Cercherò ora di spiegare perché.
C’è una differenza fondamentale, universalmente riconosciuta, tra modelli di integrazione degli immigrati di tipo «pluralistico» e modelli di carattere «assimilazionista».
Nel primo caso, l’immigrato viene accolto nel paese straniero, dove vive e lavora, senza essere costretto a rinunziare alla sua «identità», ossia a quel patrimonio di «valori» di cui si sostanzia la «cultura» del paese di origine e di cui egli è normalmente portatore. Nel secondo caso, si pretende invece che l’immigrato si adegui alla «cultura», ai costumi e allo stile di vita sociale del paese ospitante, mettendo da parte ogni genere di rivendicazione identitaria che affondi le sue radici sui «valori» maggiormente diffusi e condivisi nel paese di provenienza. Naturalmente si è di fronte a schemi tendenziali e approssimativi, che presuppongono, in concreto, (più o meno estese, per quanto) parziali sovrapposizioni.
Premessa, in ogni caso, implicita è la corrispondenza (ancora una volta tendenziale) tra l’assetto di un determinato ordinamento e il contesto culturale nazionale della relativa comunità di riferimento: il diritto, cioè, inteso come sistema positivo di norme vigenti in un determinato territorio, non è assiologicamente neutro, risentendo dell’apporto «culturale» della storia di un popolo, che ha ritenuto essenziale o almeno utile riconoscersi in determinati «valori», alcuni dei quali elevati a «nuclei essenziali e… centri di gravità delle norme» (R. De Stefano) poste a base della convivenza sociale. È in definitiva proprio quella corrispondenza a spiegare perché le nostre leggi non contengono alcun riferimento esplicito alla pratica in questione, mentre in India essa è espressamente garantita addirittura dalla Costituzione, dove è previsto che «the wearing and carrying of kirpans shall be deemed to be included in the profession of the Sikh religion» (art. 25, explanation I).
La riprova più immediata di questo ancoraggio ad un «ambiente regionalmente e culturalmente definito» del diritto (S. Berlingò), frutto dello stratificarsi intergenerazionale di una storia distinta (W. Kymlicka), è data proprio dai c.d. «conflitti multiculturali», che possono presentarsi esteriormente sotto forma di conflitto di doveri reciprocamente incompatibili, ma postulano nella sostanza uno scontro tra culture e quindi, in definitiva, tra valori.
Inserito nel contesto di tale tipo di valutazioni, il riferimento della sentenza ai «valori», sebbene, in verità, privo di ulteriori specificazioni o limitazioni, non può ritenersi ragionevolmente esteso fino ad abbracciare i valori estetici (le concezioni del bello), quelli pratici (comprese le concezioni del giusto e del buono), gli stessi valori etici e religiosi, che danno sostanza al nostro patrimonio storico-culturale. In tal caso ci troveremmo di fronte alla consacrazione ufficiale del più spinto modello assimilazionista di gestione sociale degli immigrati, che persino in Francia ha da tempo cominciato a mostrare qualche crepa: basta leggere il Rapporto al Presidente della Repubblica francese della Commissione di studio sull’applicazione del principio di laicità dell’11 dicembre 2003 (c.d. Rapporto Stasi), dove viene ribadito che la difesa dell’unità del corpo sociale non può più prevalere su ogni espressione di diversità e non può negare la forza del sentimento comunitario. Ancora più chiari e netti sono gli indirizzi che si sono andati delineando a livello di organizzazioni sopranazionali: mi limito a richiamare, tra i più recenti documenti elaborati in seno al Consiglio d’Europa, quello dal titolo Droits de l’homme dans les sociétés culturellement diverses. Lignes directrices adoptées par le Comité des Ministres et Compilation des normes du Conseil de l’Europe (giugno 2016), dove si sottolinea, fra l’altro, che les «Etats membres devraient reconnaître les besoins spécifiques des personnes appartenant à des minorités, en ayant à l’esprit la valeur de la diversité culturelle. / Les Etats membres sont encouragés à promouvoir les conditions propres à permettre aux personnes appartenant à des minorités nationales, linguistiques et religieuses de conserver et de développer leur culture, ainsi que de préserver les éléments essentiels de leur identité» (par. 55).
Gli stessi nessi sistematici, rinvenibili all’interno del complesso della motivazione, dovrebbero ridimensionare il senso e la portata apparenti di quell’espressione.
In vero, il riferimento ai problemi generali di convivenza tra soggetti di etnia diversa che si pongono nelle moderne società multiculturali, così come ai modi in cui essi andrebbero affrontati e risolti, è l’unico vero elemento di novità della sentenza rispetto ai due non lontani precedenti, già richiamati. In particolare, la Corte precisa che, in queste società, si «richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere». Già questa specificazione a rigore escluderebbe che sia chiamato in causa il modello assimilazionista, dal momento che, secondo i giudici, è solo un «nucleo» (essenziale di valori) che deve essere «comune», e quindi condiviso, sicché l’immigrato è chiamato ad aderire solo ad alcuni (e non necessariamente a tutti i) valori della società di accoglienza. Del resto, nel passaggio successivo, si tiene chiaramente conto della esplicita adesione della nostra Costituzione all’altro modello di integrazione: «Se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura d’origine, in consonanza con la previsione dell’art. 2 Cost. che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile – affermano i giudici – è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante». Né la tutela del pluralismo, quale risulta da diversi articoli della Costituzione (tra cui gli artt. 7 e 8 in materia di confessioni religiose), implica l’assenza di valori comuni di riferimento, per quanto i rapporti tra il diritto e la cultura di cui il primo è pervaso non rappresentano certo alcunché di definitivo e immutabile, di monolitico, ma piuttosto qualcosa costantemente aperto a nuovi apporti, provenienti dal libero e democratico confronto delle idee che tutti i soggetti del pluralismo, con eguali chances, mantengono vivo e possono contribuire ad alimentare.
I successivi passaggi della motivazione risultano ragionevolmente condivisibili nella misura in cui si intendano riferiti ancora una volta a valori normativi, riflessi in norme cogenti dell’ordinamento del paese di accoglienza: la «decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza ne impone il rispetto e non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante. La società multietnica è una necessità, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali confliggenti, a seconda delle etnie che la compongono, ostandovi l’unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro paese che individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare e, a tal fine, pone il divieto del porto di armi e di oggetti atti ad offendere». Forse, anziché di «unicità» del tessuto culturale e giuridico del Paese, sarebbe stato preferibile parlare di «univocità» di esso nel riconoscere come bene da tutelare quello della sicurezza pubblica (accanto al valore dell’apertura verso le identità culturali e religiose diverse). Ed è indubbio che il kirpan pone un problema reale di sicurezza che difficilmente il giudice può superare con la tecnica degli accomodamenti ragionevoli (in mancanza della disponibilità del sikh ad accettare alcune modifiche strutturali dell’oggetto), pena l’azzeramento della tutela di uno degli interessi in conflitto.
Resterebbe da chiedersi quale sia il motivo che abbia spinto la Corte ad argomentare nel senso sopra richiamato, specie ove si consideri che sarebbero stati sufficienti a sorreggere la motivazione quegli stessi elementi su cui si era fatto leva nelle precedenti decisioni.
A mio parere – ove si rifletta anche sulla circostanza che, a differenza dei precedenti del 2016, la Corte si è stavolta discostata dalle conclusioni formulate dalla Procura – essa ha voluto riaffermare il suo orientamento contrario in principio ad ammettere forme di rilevanza sostanzialmente scriminante (di condotte aventi rilevanza penale) basate su semplici atteggiamenti del giudice di mera tolleranza verso la cultura e i valori di origine degli immigrati, almeno quando sono offesi o messi in pericolo beni di primario rilievo, aventi anche rango costituzionale. Per questo probabilmente la Corte ha deciso di integrare i passaggi della motivazione di carattere squisitamente giuridico-penale con riflessioni maggiormente ancorate al piano dei valori, scegliendo di muoversi, su questo secondo versante, attorno a quello stesso nucleo di riferimenti sostanziali all’«elemento culturale» attorno a cui ruotano, da un decennio a questa parte, le riflessioni in materia di «reati culturalmente motivati» e di cultural defense (per tutti, cfr. F. Basile, I reati cd. «culturalmente motivati» commessi dagli immigrati: (possibili) soluzioni giurisprudenziali, in Questione giustizia, n. 1/2017). Non a caso, parlando della necessità della «consapevolezza» dei valori di riferimento del paese di accoglienza, e di una «violazione cosciente» di essi, la Cassazione sembra attenta a non sconfessare qualche precedente in cui era emersa una sua limitata apertura nel dare rilevanza alla cultura di origine dell’immigrato, almeno nella misura in cui essa avrebbe impedito una corretta percezione e conoscenza del divieto (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 24 novembre 2011, n. 43646, in materia di circoncisione).
Si può a ragione eccepire alla Corte che è inutile appellarsi alla forza della «cultura» o dei «valori» per affermare la validità della legge, così confermando però che sarebbe anche inutile farlo per pretendere di essere dispensati dall’osservarne i precetti, in particolare quelli di natura penale che sono (e che dovrebbero sempre essere) posti a presidio di beni davvero irrinunziabili per il vivere insieme.
Ed è questo, a mio parere, che la Corte ha inteso in definitiva ribadire.
Angelo Licastro