Il 13 giugno 2014 Fabiano Antoniani rimane vittima di un incidente stradale a seguito del quale riporta lesioni del midollo spinale a carico di due vertebre cervicali. Antoniani diventa cieco, tetraplegico e parzialmente incapace di respirare autonomamente, ma l’incidente non lo priva né della lucidità, né della percezione del dolore. Da questo momento, infatti, il dolore dominerà ogni fase della sua vita quotidiana.
Ogni tipo di cura si rivela assolutamente inutile, né si può dire che Fabiano Antoniani abbia desiderato di morire fin dall’inizio del suo calvario. Si reca in India con la fidanzata per sottoporsi ad una cura sperimentale di cellule staminali che non produce alcun effetto, solo dopo il tentativo di terapie sperimentali, Antoniani comincia a desiderare di morire e la sua condizione coinvolge anche la famiglia e gli affetti.
A questo punto, la fidanzata di Antoniani entra in contatto con l’esponente radicale Marco Cappato che lo incontra e prende atto della sua conclamata e irreversibile decisione di porre termine ai propri giorni. Così si impegna a mettere in contatto la famiglia Antoniani con una clinica svizzera dove si pratica l’interruzione della vita su richiesta, sulla base di condizioni molto rigorose. Questa clinica prevede che sia il paziente a doversi dare la morte, attivando lo stantuffo della siringa contente il liquido letale (nel caso di Antoniani, con i denti, ossia l’unica parte del corpo che potesse fungere allo scopo).
Il 27 febbraio 2017 Antoniani muore in Svizzera ed il giorno dopo Marco Cappato si autodenuncia ai Carabinieri di Milano, dichiarando di essersi recato in Svizzera, presso la clinica “Dignitas”, per accompagnare Antoniani, di averlo messo in contatto con la clinica e inoltre di essere stato pienamente al corrente degli scopi del viaggio. Cappato, quindi, avrebbe fornito aiuto ed assistenza durante la malattia e, dopo aver constatato la volontà irremovibile di morire di Antoniani, l’avrebbe accompagnato in auto in Svizzera.
Il 2 maggio 2017 la Procura di Milano formula una richiesta di archiviazione in cui sostiene un’interpretazione restrittiva dell’art. 580 c.p., che esclude dall’ambito di operatività di questa norma le condotte di mero accompagnamento del paziente nel luogo dove, poi, sarà praticato il suicidio assistito. Secondo la richiesta di archiviazione della Procura di Milano, sarebbero, pertanto, punibili, ex art. 580 c.p., solo le condotte di agevolazione materiale nell’esecuzione del suicidio, ma non anche le condotte di tipo “neutro”, come guidare la macchina verso il luogo dove poi si svolgerà il rituale del suicidio assistito. Questa condotta, infatti, sarebbe incompatibile con qualsiasi tipo di rilevanza penale in forza dei principi di materialità e di offensività. Su questa linea, la condotta di Cappato non integrerebbe gli estremi della agevolazione dell’altrui suicidio, perché l’unico contributo dell’esponente radicale all’esecuzione del suicidio di Fabio Antoniani sarebbe consistito nell’aver spostato Antoniani dalla sedia al letto dove, poi, sono avvenute le prove di autonoma capacità di azionamento del meccanismo che determina l’inoculazione della sostanza letale nel corpo del paziente. In altre parole, l’indagato non avrebbe avuto alcun ruolo di agevolazione nell’esecuzione vera e propria del suicidio. Si tratta di un’interpretazione “innovativa” (e forse non pienamente coerente) del dato letterale di cui all’art. 580 c.p. A fondamento del ragionamento logico giuridico è posto non solo il panorama costituzionale, ma anche la dimensione sovranazionale, descritta dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo: l’art. 32 Cost. e l’art. 2 CEDU sulla tutela della vita dovrebbero così essere letti sinergicamente.
Anche la richiesta di archiviazione formulata nel maggio scorso dai PM milanesi ribadisce la necessità di escludere dall’ambito applicativo dell’art. 580 c.p. il diritto di morire con dignità, auspicando, de iure condendo, l’eliminazione dalla struttura dell’art. 580 c.p. delle condotte di agevolazione dell’altrui suicidio, almeno di quelle commesse con motivi altruistici, ferma restando la perdurante punibilità delle condotte di determinazione ed istigazione al suicidio.
Il GIP di Milano, il 10 luglio 2017, rigetta la prospettazione dei PM milanesi, imponendogli di riformulare l’imputazione sia con riferimento alla condotta di aiuto che con riguardo all’istigazione al suicidio, sul presupposto che la dichiarata disponibilità di Cappato, nell’evoluzione della vicenda, non avrebbe avuto altro effetto che quello di rafforzare il proposito suicida di Fabiano Antoniani.
I PM avevano prospettato anche una questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., proprio nella parte in cui non esclude la rilevanza penale delle condotte di agevolazione dell’altrui suicidio determinate da motivi altruistici.
Il GIP non ritiene opportuno inoltrare la questione ai Giudici della Corte Costituzionale e la respinge sulla base di una lettura “tradizionale” dell’art. 580 c.p., che ridimensiona il contenuto precettivo dell’art. 32, comma 2, Cost. Secondo il GIP, infatti, il diritto di autodeterminazione responsabile sarebbe un diritto a rifiutare i trattamenti terapeutici, che non ricomprende il diritto a chiedere aiuto nel compimento del suicidio.
In conclusione, per la Procura di Milano, Marco Cappato avrebbe semplicemente aiutato una persona ad esercitare il diritto di morire con dignità; ciononostante il GIP ha imposto l’imputazione coatta. Da qui, la decisione di andare direttamente a processo, con rito immediato, saltando l’udienza preliminare.
La Corte di Assise di Milano decide di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito suicidiario, ritenendo tale incriminazione in contrasto e violazione dei principi sanciti agli articoli 3, 13, comma 2, e 25, comma 3, Cost., che individuano la ragionevolezza della sanzione penale in funzione dell’offensività della condotta accertata. Deve, infatti, ritenersi che, in forza dei principi costituzionali dettati agli artt. 2, 13, comma 1, Cost. ed all’art. 117 Cost., con riferimento agli artt. 2 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, all’individuo sia riconosciuta la libertà di decidere quando e come morire e che, di conseguenza, solo le azioni che pregiudichino la libertà della sua decisione possano costituire offesa al bene tutelato dalla norma in esame.
Secondo i giudici, i principi costituzionali in materia («dai quali deriva la libertà dell’individuo di decidere sulla propria vita, ancorché da ciò dipenda la sua morte»), il riconoscimento del diritto alla libertà e alla autodeterminazione e la recente approvazione della legge 219 del 2017 «devono presidiare l’esegesi della norma di cui all’art. 580 c.p. orientando l’interprete nell’individuazione del bene giuridico tutelato e, di conseguenza, delle condotte idonee a lederlo».
Alla luce dei principi di offensività, ragionevolezza e proporzionalità della pena – si legge nell’ordinanza – «si ritiene che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida, non siano sanzionabili. E tanto più che non possano esserlo con la pena della reclusione da 5 a 10 anni, prevista dall’art. 580 c.p., senza distinzione tra le condotte di istigazione e quelle di aiuto, nonostante le prime siano certamente più incisive anche solo sotto il profilo causale, rispetto a quelle di chi abbia semplicemente contribuito al realizzarsi dell’altrui autonoma deliberazione e nonostante del tutto diversa risulti, nei due casi, la volontà e la personalità del partecipe».
Si ripresenta in maniera formidabile il dilemma antico dei limiti dell’intervento penale in assenza di una legge in grado di dare davvero valore al nostro “diritto di entrare nella morte ad occhi aperti” (M. Yourcenar).
La vicenda giudiziaria di Marco Cappato rende ancora attuale chiedersi se, nella materia de qua, sia opportuno scegliere di regolamentare con lo strumento penale il diritto di morire o non sia necessario, come accade, ad esempio, nell’ordinamento tedesco, scegliere, per questi casi “particolari”, uno spazio libero dal diritto, dove solo la coscienza possa influenzare le decisioni individuali del paziente.
In conclusione, la Corte di Assise di Milano, con l’ordinanza dello scorso 14 febbraio, ci ha ricordato che la nostra Carta costituzionale e la Convenzione dei diritti dell’uomo sanciscono che ogni persona è libera di decidere come e quando morire. Su questa base, da un lato, ha riconosciuto che Marco Cappato non ha rafforzato la volontà di Dj Fabo di porre fine alla propria vita e, dall’altro, ha chiesto alla Consulta di pronunciarsi sulla legittimità costituzionale del reato di aiuto al suicidio. Una decisione storica, quindi, nonostante l’apparente neutralità. Alla Consulta è affidato il delicato compito di stabilire fin dove può spingersi il diritto all’autodeterminazione di ciascuno di noi e quale sia la relazione esatta tra l’autonomia della persona e la dignità individuale. La scelta di trasmettere gli atti alla Consulta significa avere finalmente preso consapevolezza che la questione dell’autodeterminazione non è più solo un caposaldo dell’etica contemporanea, ma anche un nodo fondamentale del nostro ordinamento giuridico.
Non ci resta, dunque, che attendere la pronuncia della Consulta, auspicando che possa aprire la strada al Legislatore per un intervento finalmente in grado di sancire che nessuno può giudicare cosa possa essere “degno” per un’altra persona, compreso l’accesso al suicidio assistito.
Simona Raffaele